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De Arte Sacra Agriculturae 
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Beh.. il discorso si complica.
Diciamo che più che altro si tratta di un rammemoramento interiore e di una conseguente condotta etica, che mi spinge ad agire in determinati modi rispetto ad altri, in tutti i momenti del quotidiano. Ma credo che sia sostanzialmente quello che fanno tante persone. Non si tratta di niente di speciale o - visto che abbiamo tirato in ballo Guenon - "esoterico" :o
Figuriamoci. Sono una persona comune.

Saluti!

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Questa Italia non ci piace e forse neppure ci appartiene, ma è pur sempre la nostra madre e la dobbiamo amare comunque, anche se è diventata una prostituta.

Beppe Niccolai


25/12/2009, 21:58
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non volevo entrare nel privato, quindi scusami se ti ho messo un pò alle corde... credo che spesso, proprio le persone comuni siano quelle più speciali... quelle che non si effigiano di mostrine e loghi, quelle che non hanno bisogno di sentire l'appartenenza a qualcosa o a qualcuno. quelle spesso, sono le più libere..
tornando all'agricoltura, i contadini sovente ancor oggi riproducono, anche se meno consapevolmente, la ritualità di cui hai scritto. la natura di per sè ha cicli e riti, e l'agricoltura è la sopravvivenza da sempre, l'unico dio che ti sfama.
anche se tecnologia e progresso (?) oggi tendono ad allontanare l'uomo da quell'armonia di cui tu parli, temo non sarà mai possibile fare agricoltura stando al di fuori di certe meccaniche. solo l'immersione nelle Leggi permette all'uomo di conoscerle e quindi, non dico di governarle, ma almeno di trarne il maggior profitto. e un altro profitto è quello dell'educazione interiore, etica, dell'uomo che si adegua a queste leggi. la ciclicità, i tempi, l'impegno, sono profondamente educativi dell'animo umano. e poi, quante volte noi umani ci poniamo domande a cui ci sembra di non aver risposta? ebbene, in natura, per la semplice legge dell'analogia, tutte le risposte stanno lì, ad aspettare soltanto che qualcuno le legga...
bea

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Bea


26/12/2009, 7:37
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...BASTA GUARDARLE CON LE "LENTI" GIUSTE...
DOMMI

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...quando il silenzio incontrò il rumore, lo ripudiò immediatamente perchè non era "musica"...
Domenico


26/12/2009, 9:32
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Cita:
non volevo entrare nel privato, quindi scusami se ti ho messo un pò alle corde...


Vedi: sono io che avevo interpretato male la tua domanda. :roll: Bisogna sempre legger più attentamente.

Cita:
tornando all'agricoltura, i contadini sovente ancor oggi riproducono, anche se meno consapevolmente, la ritualità di cui hai scritto. la natura di per sè ha cicli e riti, e l'agricoltura è la sopravvivenza da sempre, l'unico dio che ti sfama.
anche se tecnologia e progresso (?) oggi tendono ad allontanare l'uomo da quell'armonia di cui tu parli, temo non sarà mai possibile fare agricoltura stando al di fuori di certe meccaniche.


Perfettamente d'accordo.
Credo sia molto interessante indagare anche lo stretto rapporto che esiste per l'appunto tra i sostantivi coltura - culto - cultura e tra ritmo - rito (riguardo quest'ultima però non sono sicuro che i linguisti abbiano individuato una reale discendenza.. forse è solo una mia suggestione sonora..).

Mircea Eliade - Trattato di Storia delle Religioni

"Il lavoro agricolo è un rito, non soltanto perché è compiuto sul corpo della Terra-Madre e perché mette in moto le forze sacre della vegetazione, ma anche perché implica l'integrazione dell'agricoltore entro certi periodi di tempo benefici e nocivi; perché è attività accompagnata da pericoli (ad esempio, la collera dello spirito che era padrone del terreno prima della coltivazione); perché presuppone una serie di cerimonie, di origine e struttura diverse, destinate a promuovere la crescita dei cereali e a giustificare il gesto del contadino; infine perché introduce quest'ultimo in un dominio che si trova, in un certo senso, anche sotto la giurisdizione dei morti ecc. "..."

I Morti e i Semi

"L'agricoltura, come tecnica profana e come forma di culto, incontra il mondo dei morti su due piani distinti. Il primo è la solidarietà con la terra; i morti, come i semi, sono sotterranei, penetrano nella dimensione ctonia accessibile solo a loro. D'altra parte, l'agricoltura è per eccellenza una tecnica della fertilità, della vita che si riproduce moltiplicandosi, e i morti sono particolarmente attratti da questo mistero della rinascita, della palingenesi e della fecondità senza posa. Simili ai semi sepolti nella matrice tellurica, i morti aspettano di tornare alla vita sotto nuova forma. Per questo si accostano ai vivi, specie nei momenti in cui la tensione vitale delle collettività raggiunge il massimo, cioè nelle feste dette della fertilità, quando le forze generatrici della natura e del gruppo umano sono evocate, scatenate, esasperate dai riti, dall'opulenza e dall'orgia. Le anime dei morti hanno sete di ogni esuberanza biologica, di ogni eccesso organico, perché questo traboccare della vita compensa la povertà della loro sostanza e li proietta in una impetuosa corrente di virtualità e di germi.
Il banchetto collettivo rappresenta appunto tale concentrazione di energia vitale; un banchetto, con tutti gli eccessi che comporta, è dunque indispensabile tanto per le feste agricole quanto per la commemorazione dei morti. Un tempo i banchetti avvenivano addirittura accanto alle tombe, perché il defunto potesse godere dell'esuberanza vitale liberata accanto a lui. In India i fagioli erano per eccellenza l'offerta fatta ai morti, ma venivano insieme considerati un afrodisiaco. In Cina, il letto matrimonailae satava nell'angolo più buio della casa, dove si conservavano i semi, sopra il punto preciso ove erano sepolti i morti. Il legame fra antenati, raccolti e vita erotica è tanto stretto che i culti funebri, agrari e genitali si interpenetrano, talvolta sino a completa fusione. Presso i popoli nordici Natale (Jul) era la festa dei morti e, insieme, un'esaltazione della fertilità, della vita. Per Natae si tengono abbondanti banchetti, e spesso è proprio in queste occasioni che si celebrano nozze e si curano le tombe.
In quei giorni i morti tornano per prender parte ai riti di fertilità dei vivi. In Svezia, la moglie conserva un pezzo della torta di nozze nella credenza dotale, per portarla con sé nella tomba. Parimenti, sia nei paesi nordici che in Cina, le donne sono sepolte in veste da sposa. L'<<arco d'onore>> innalzato sopra il percorso degli sposi è identico a quello che si innalza al cimitero per ricevere un morto. L'albero di Natale (originariamente, nel Nord, un albero a cui si lasciavano soltanto le foglie della cima, un <<Maggio>>) figura nelle nozze come nei funerali. E' inutile ricordare le nozze post mortem, reali o simboliche, di cui parleremo altrove, e che si spiegano col desiderio di assicurare al morto una condizione vitale ottima e di proiettarlo in uno stato generativo.
Se i morti ricercano le modalità spermatiche e germinative, è altrettanto vero che anche i vivi hanno bisogno dei morti per difendere le semine e proteggere i raccolti. La <<Terra-Madre>> o la Grande Dea della fertilità, domina allo stesso modo il destino dei semi e quello dei morti. Ma questi ultimi, qualche volta, sono più vicini all'uomo, e l'agricoltore si rivolge loro perché benedicano e sostengano il suo lavoro (il nero è il colore della terra e dei morti). Ippocrate ci dice che gli spiriti dei defunti fanno crescere e germinare i semi, e l'autore dei Geoponica sa che i venti (cioè le anime dei morti) danno vita alle piante e a ogni cosa. In Arabia, l'ultimo covone, chiamato <<il vecchio>>, è mietuto dal padrone del campo in persona, messo in una tomba e sepolto con preghiere invocanti <<che il grano rinasca dalla morte alla vita>>. I Bambara, versando acqua sulla testa del cadavere disteso nella fossa, prima di colmarla di terra implorano: <<Che ci siano benefici i venti, soffino da nord, da sud, da est o da ovest! Dacci la pioggia! Dacci un raccolto abbondante!>>. Durante la semina i Finlandesi seppelliscono delle ossa di morti (prese al cimitero e riportate dopo il raccolto), od oggetti appartenuti ai morti. Se non ne hanno, i contadini si contentano di terra del cimitero o di un quadrivio da cui sono passati i morti. I Tedeschi usano spandere sui campi, insieme ai semi, terra prelevata da una inumazione recente, o paglia su cui qualcuno è morto. Il serpente, animale funebre per eccellenza, protegge i raccolti. In primavera, all'inizio delle semine, si offrivano sacrifici ai morti perché difendessero il raccolto e ne avessero cura."

Continua...

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Beppe Niccolai


26/12/2009, 15:10
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La terra, luogo d'elezione dell'agricoltore, ha però nell'esperienza primitiva del sacro una valenza ancor più primordiale di quella di "produttiuce di messi" o "portatrice dei frutti".

Mircea Eliade - "Struttura delle ierofanie telluriche"

[...] "Nel mito cosmogonico la Terra svolge un ruolo passivo, anche se primordiale. Prima di qualsiasi affabulazione mitica circa la terra, si ebbe la presenza stessa del suolo, valorizzata sul piano religioso. La Terra, per una coscienza religiosa primitiva, è un dato immediato; la sua estensione, la sua solidità, la varietà dei suoi rilievi e della vegetazione che produce formano una unità cosmica, viva e attiva per la sua stessa <<forma>>, popolata di forza e satura di sacro. La prima valorizzazione religiosa della Terra fu <<indistinta>>, vale a dire che non localizzava il sacro nello strato tellurico propriamente detto, ma confondeva in una sola unità tutte le ierofanie avutesi nell'ambiente cosmico circostante: terra, pietre, alberi, acque, ombre ecc. L'intuizione primaria della terra come<<forma>> religiosa si può ridurre alla formula <<Cosmo - ricettacolo di forse sacre diffuse>>. Se nelle valorizzazioni religiose, magiche o mitiche delle Acque sono implicite le idee di germi, latenza e rigenerazione, l'intuizione primordiale della Terra ce la mostra come fondamento di tutte le manifestazioni. Tutto quello che <<è>> sulla terra è insieme, e forma una grande unità.
La struttura cosmica di queste intuizioni primarie ci vieta quasi di individuarvi l'elemento propriamente tellurico. Poiché l'ambiente circostante era vissuto come unità, sarebbe difficile distinguere, in queste intuizioni primarie, quel che appartiene alla terra propriamente detta da quel che è soltanto manifestato tramite essa: monti, foreste, acque, vegetazione. Una cosa sola possiamo affermare con certezza circa queste intuizioni primarie (la cui struttura religiosa sarebbe inutile dimostrare ancora una volta): che esse si manifestano come forme, rivelano delle relatà, si sono imposte come necessità, <<colpendo>> la coscienza dell'uomo. La Terra, con tutto quello che sostiene ed abbraccia, fu fin da principio fonte inesauribile di esistenze, che si rivelavano all'uomo in modo immediato.
Che la struttura cosmica della ierofania della terra abbia preceduto la sua struttura propriamente tellurica (impostasi in modo definitivo soltanto con la comparsa dell'agricoltura), ce lo dimostra la storia delle credenze sull'origine dei bambini. Prima che fossero note le cause fisiologiche del concepimento, si credeva che la maternità dipendesse dall'inserimento diretto del figlio nel ventre materno. Se poi quel che vi penetra si già un feto - che ha già vissuto una sua vita prenatale nelle grotte, nei crepacci, nei pozzi, negli alberi ecc - o sia soltanto un germe, oppure l'<<anima dell'antenato>> ecc - sono questioni di nessun interesse ai fini di questo capitolo. Di primaria importanza è l'idea che i figli non sono generati dal padre, ma che, a uno stadio più o meno avanzato del loro sviluppo, vengono a collocarsi nel ventre materno in seguito al contatto della donna con un oggetto o un animale dell'ambiente cosmico circostante. [...]
L'uomo non interivene nella generazione. Il padre è padre dei propri figli soltanto in senso giuridico, non nel senso biologico; gli uomini sono legati l'uno all'altro unicamente attraverso le madri, e anche questo vincolo è precario. D'altra parte gli uomini sono legati all'ambiente cosmico circostante in modo assai più stretto di quanto possa immaginare una mentalità moderna, profana: sono, in senso concreto e in senso allegorico, <<gente del paese>>. Furono portati dagli animali acquatici (pesci, rane, coccodrilli, cigni), sono spuntati nelle rocce, negli abissi e nelle grotte, prima di venir proiettati, per mezzo di un contatto magico, nel ventre materno. Hanno cominciato la vita prenatale nelle acque, nei cristalli, nelle pietre, negli alberi: hanno vissuto - in forma preumana, oscura, come <<anime>> di <<figli antenati>> - in una delle più vicine zone cosmiche. Così, per ricordare soltanto qualche esempio, gli Armeni credono che la terra sia <<il ventre materno dal quale sono usciti tutti gli uomini>>. I Peruviani si credono discendenti delle montagne e delle pietre. Altri popoli localizzano l'origine dei bambini nelle grotte, nei crepacci, nelle sorgenti ecc. Ancor oggi sopravvive in Europa la credenza che i bambini <<provengano>> dalle paludi, dalle sorgenti, dai fiumi, dagli alberi ecc. In queste superstizioni il punto significativo è la struttura cosmica della <<Terra>>, la quale può essere identificata in tutto quanto l'ambiente circostante, nel microcosmo, e non soltanto nella regione tellurica propriamente detta. Qui <<la Terra>> significa tutto quanto circonda l'uomo, tutto il <<luogo>>, con le sue montagne, le sue acque la sua vegetazione.
Il padre umano altro non fa che legittimare questi figli per mezzo di un rituale che ha tutte le caratteristiche dell'adozione. I figli appartengono in primissimo luogo <<al posto>>, cioè al microcosmo circostante. La madre non ha fatto altro che riceverli; li ha <<raccolti>>, tutt'al più ha portato a compimento la loro forma umana. Si capisce allora senza difficoltà che il sentimento di solidarietà col microcosmo circostante, col <<luogo>>, sia stato predominante per l'uomo che si trovava in quello stadio dell'evoluzione mentale, o più esattamente, che considerava la vita umana in quella maniera. Si può dire in un certo senso che l'uomo non era ancora nato, non aveva ancora preso coscienza di appartenere totalmente alla specie biologica da lui rappresentata. La sua vita in quello stadio si potrebbe piuttosto considerare una fase prenatale: l'uomo seguitava ancora a partecipare in modo immediato a una vita diversa dalla sua, una vita <<cosmico-materna>>. Aveva, diremmo noi, un'esperienza <<onto-filogenetica>> oscura e frammentaria; sentiva di provenire da due, perfino da tre <<matrici>> contemporaneamente. [...]
La precarietà della paternità umana era compensata dalla solidarietà esistente fra l'uomo e certe forze o sostanze cosmiche protettrici. Ma, d'altra parte, questa solidarietà col <<luogo>> non poteva suscitare nell'uomo il senso di essere un creatore nell'ordine biologico. Il padre, nel legittimare i propri figli, usciti da un qualsiasi ambiente cosmico, o anche dalle <<anime degli antenati>>, non aveva realmente figli, ma soltanto nuovi membri della famiglia, nuovi collaboratori nel suo lavoro e nella sua difesa. Il vincolo che lo univa alla sua progenie era in ogni caso per proximi. La sua vita biologica finiva con lui, senza nessuna possibilità di continuazione attraverso altri esseri, come avverrà più tardi con l'interpretazione che daranno gli Indoeuropei del sentimento di continuità familiare, interpretazione fondata su un duplice fatto: la discendenza biologica diretta (i genitori creano il corpo, la <<sostanza>>, del figlio), e la discendenza avita indiretta (le anime degli antenati s'incarnano nei neonati).
La <<Terra>> era dunque, nelle prime esperienze religiose o intuizioni mitiche, <<il luogo tutto intero>> intorno all'uomo. Numerose parole che designano la <<Terra>> hanno etimologie spiegabili con impressioni spaziali: <<luogo>>, <<largo>>, <<provincia>> (cfr. prthivi, <<l'ampia>>); o con impressioni sensorie primarie: <<salda>>, <<quel che resta>>, <<nera>> ecc. La valorizzazione religiosa della terra da un punto di vista strettamente tellurico è potuta avvenire soltanto più tardi, nel ciclo pastorale e soprattutto nel ciclo agricolo, per usare termini etnologici. Prima, tutte quelle che si potrebbero chiamare <<divinità della terra>> erano piuttosto divinità del luogo, nel senso di ambiente cosmico circostante."

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Beppe Niccolai


27/12/2009, 19:14
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Mircea Eliade - Homo-Humus

"Da tutte le credenze passate in rassegna fin qui, risulta che la Terra è madre, cioè che genera le forme viventi traendole dalla propria sostanza. La Terra è <<viva>> anzitutto perché è fertile. Tutto quel che esce dalla terra è dotato di vita, e tutto quel che torna alla terra è nuovamente fornito di vita. Il binomio homo-humus non dev'essere inteso nel senso che l'uomo è terra in quanto è mortale, ma in quest'altro senso: che se l'uomo poté esser vivo, fu perché veniva dalla terra, perché dalla Terra Mater nacque e in essa ritorna. Tempo fa Solmsen ha spiegato materies con mater. Anche se quest'etimologia non è esatta (il senso primitivo di materia sembra stia a indicare <<il cuore del legno>>), essa può essere valida entro una rappresentazione mitico-religiosa del mondo: la <<materia>> ha la sorte di una madre, perché genera incessantemente. Quelle che chiamiamo vita e morte sono soltanto due momenti diversi nel destino totale della Terra-Madre; la vita altro non è che il distacco dalle sue viscere, la morte si riduce a un ritorno <<alla propria casa>>. Il desiderio, tanto frequente, di essere sepolti nel suolo della patria, è soltanto una forma profana dell'autoctonismo mistico, del bisogno di rientrare in casa propria. Le iscrizioni sepolcrali romane di epoca imperiale insistono sulla gioia di essere sepolti nel suolo della patria: hic natus, hic situs est; hic situs est patriae; hic quo natus fuerat optans erat illo reverti ecc. E altri non nascondono il rimpianto di non avere questa consolazione: altera contexit tellus dedit altera nasci ecc. Per finire, si rifiutava la sepoltura ai traditori perché, secondo la spiegazione data da Filostrato, erano indegni <<di essere santificati dalla terra>>.
L'acqua è portatrice di germi; anche la terra porta germi, ma nella terra tutto giunge rapidamente a produrre i suoi frutti. Le latenze e i germi restano talvolta nelle Acque per parecchi cicli prima di arrivare a manifestarsi, ma della terra si può dire che quasi non consce riposo; il suo destino è di generare senza posa, di dare forma e vita a tutto quel che torna ad essa sterile ed inerte. Le Acque stanno all'inizio e alla fine di ogni avvenimento cosmico; la terra è al principio e alla fine di ogni vita. Ogni manifestazione si attua al disopra delle Acque, e si reintegra nel caos primordiale attraverso un cataclisma storico (il diluvio) o cosmico (mahapralaya). Ogni manifestazione biologica avviene grazie alla fecondità della terra; ogni forma vi nasce e vi ritorna quando è esaurita la parte di vita che le era stata assegnata. Vi torna per rinasce; ma, prima di rinascere, per riposare, purificarsi, rigenerarsi. Le acque precedono ogni creazione e ogni forma: la Terra produce forme viventi. Mentre il destino mitico delle acque è quello di aprire e chiudere i cicli cosmici o eonici che durano all'infinito, il destino della Terra è di stare al principio e al termine di qualsiasi forma biologica, o appartenete alla storia locale (<<gli uomini del posto>>). Il tempo - che, si potrebbe dire, è sonnolento nei riguardi delle Acque - è attivo e instancabile quando la terra genera; le forme viventi appaiono e scompaiono con rapidità fulminea. Ma nessuna scomparsa è defintiva: la morte delle forme viventi è soltanto un modo latente e provvisorio di esistenza; la forma vivente, in quanto tipo o specie, non scompare mai, entro il termine che le Acque concedono alla Terra."

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Beppe Niccolai


29/12/2009, 19:54
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Mircea Eliade - Solidarietà cosmobiologica

A cominciare dal momento in cui una forma si è staccata dalle Acque, ogni legame organico con esse è rotto; tra il preformale e la forma esiste uno iato. Simile frattura non avviene per le forme generate dalla terra, le quali rimangono solidali con la loro matrice; del resto se ne sono separate solo provvisoriamente, e a essa tornano per riposare, fortificarsi e alla fine ricomparire alla luce del giorno. Per questo tra la terra e le forme organiche da essa generate c'è un magico legame di simpatia. Tutte insieme formano un sistema. I fili invisibili che collegano la vegetazione, il regno animale e gli uomini di una certa regione al suolo che li genera, li porta e li nutre, furono intessuti dalla vita, che palpita tanto nella Madre come nelle sue creature. La solidarietà fra il tellurico da una parte, il vegetale, l'animale e l'umano dall'altra, si deve alla vita, dappertutto la stessa. La loro unità è di carattere biologico. E quando una qualsiasi delle modalità della vita è contaminata o sterilizzata da una colpa contro la vita stessa, tutte le altre vengono colpite, per via della loro solidarietà organica.
Il delitto è un sacrilegio, che può avere conseguenze gravissime a tutti i livelli della vita, semplicemente perché il sangue versato avvelena la terra. E la calamità si manifesta colpendo di sterilità campi, bestie e uomini egualmente. Nel prologo dell'Edipo Re (vv. 25 sgg), il sacerdote si lamenta delle sventure piombate su Tebe: <<La città perisce nei germi fruttiferi della terra, nelle mandrie di buoi al pascolo e nei parti delle donne che terminano tutti senza nascite>>. Un re saggio, un regno fondato sulla giustizia garantiscono invece la fertilità della terra, degli animali e delle donne. Ulisse dichiara a Penelope che, grazie alla fama di un re buono, la terra porta le messi, gli alberi si piegano sotto il peso dei frutti, le pecore partoriscono regolarmente, il mare formicola di pesci. Esiodo così formula questo concetto rustico dell'armonia e della fertilità antropocosmiche: <<Coloro che, per lo straniero e il cittadino, emettono sentenze giuste e non divergono mai dalla giustizia, vedono la loro città espandersi ed entro le sue mura farsi florida la popolazione. Sul loro paese si diffonde la pace nutrice di giovani, e Zeus dal vasto sguardo non destina loro la guerra dolorosa. Questi retti giustizieri non sono mai seguiti da carestia e calamità (...). La terra offre loro una vita abbondante; sui loro monti le querce portano ghiande in cima e api nel tronco; le loro lanose pecore hanno velli pesanti; le loro mogli partoriscono figli simili ai padri; si espandono in prosperità senza fine e non se ne vanno per mare, perché il fertile suolo offre loro le sue messi>>.

CONCORDIA PARVA CRESCVNT

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Beppe Niccolai


01/01/2010, 14:38
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Finora abbiamo visto le interessanti ricerche di uno studioso moderno, ma dallo spirito direi molto penetrativo, riguardo l'universo simbolico-religioso che si collega strettamente alla nascita dell'agricoltura e alla percezione primaria della Terra Madre. Ma cosa pensavano gli antichi stessi intorno a questi argomenti? Difficile dirlo con precisione, poiché ogni epoca reinterpreta quelle passate, forse snaturandole dalle loro vere intenzionalità e movenze. E così succede ad ogni singolo occhio che si posa su pagine, avvenimenti, storie del passato. Il sospetto che ci stiamo in fondo raccontando un sacco di frottole è sempre dietro l'angolo. Ma se le antiche testimonianze, apparentemente mute, ancora stimolano i nostri pensieri, ci emozionano e scuotono, vuol dire che a distanza di millenni esse sono in fondo ancora vive, perché ci comunicano qualcosa di essenziale che resiste a tutti gli ornamenti logori del tempo.
A voi la lettura di uno dei trentatre Inni Omerici, tradotto e curato dallo storico Filippo Càssola per "La fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore". Un inno che trovo bellissimo e che secondo me richiama alla mente quanto scritto da Mircea Eliade stesso (che per questo ho chiamato "penetrativo") sulla sacralità della terra, sulla sua stretta solidarietà con l'ambiente circostante, sulla regalità secondo giustizia ecc ecc:

XXX - A Gea, madre di tutti i viventi

"Gea io canterò, la madre universale, dalle salde fondamenta,
antichissima, che nutre tutti gli esseri, quanti vivono sulla terra;
quanti si muovono sulla terra divina o nel mare
e quanti volano, tutti si nutrono dell'abbondanza che tu concedi.
Grazie a te gli uomini sono fecondi di figli, e ricchi di messi,
signora; è in tuo potere dare o togliere la vita
agli uomini mortali. Felice colui che nel tuo cuore
tu benevola onori: a lui senza limite affluisce ogni bene.
Per lui sono gravati dal raccolto i solchi apportatori di vita,
e nei campi
ha gran copia il bestiame; la sua casa è piena di ricchezze.
Tali uomini regnano con giustizia sulle città dalle belle donne
e li accompagna grande benessere, e prosperità;
esultano i figli di letizia giovanile,
e, nei cori ornati di ghirlande, con animo lieto,
danzando si rallegrano, tra i fiori del prato, le figlie
di coloro che tu onori, o dea veneranda, forza generosa.
Salve, madre degli dei, consorte del cielo stellato;
concedimi benigna, in cambio del mio canto, la prosperità che
conforta il cuore;
ed io mi ricorderò di te, e di un altro canto ancora."

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Beppe Niccolai


01/01/2010, 18:06
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Visto che ci stiamo velocemente avvicinando all'Epifania, ritengo sia di comune interesse analizzarne le origini, i significati simbolici e l'universo folkloristico che le stanno dietro e che alimentano questa festività, ancora una volta collegata al mondo agricolo e contadino e ai suoi riti di rinnovamento e di passaggio dal vecchio al nuovo anno.

Alfredo Cattabiani - Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell'anno

Riti e usanze dell'Epifania

"La notte dell'Epifania è considerata nelle campagne una notte magica: si dice che gli animali parlino nelle stalle e nei boschi. <<La notte di Befana nella stalla parla l'asino, il bove e la cavalla>>; <<La notte di Pasquetta parla il chiù con la civetta>> affermano due proverbi, il secondo intendendo Pasquetta per Epifania perché un tempo si chiamava <<pasqua>> o <<pasquetta>> ogni festa religiosa solenne: Pasqua di Ressurezione, ma anche Pasqua di Natale e Pasqua Epifania.
In Toscana si tramandano anche le parole che si scambiano i bovi (ormai scomparsi con l'avvento della meccanizzazione) nelle stalle:
<<Nerone!>>
<<Te l'ha data riccia la cena il tuo padrone?>>
<<No, non me l'ha data.>>
<<Tiragli una cornata!>>
Per questo motivo si dice che alla vigilia dell'Epifania i contadini governano senza risparmio le loro bestie per evitare che nella magica notte dicano male del padrone e del loro custode.
L'Epifania è celebrata in Italia con tante feste e usanze che ne riflettono i vari aspetti. Giaà si è accennato alla festa dei pignarul a Tarcento, ispirata alla luce della stella. Un'altra manifestazione è il Rito della stella, che si svolge a Sabbio Chiese in provincia di Brescia. Nella tarda serata un coro di giovani, accompagnato da un'orchestrina, esegue il <<canto della stella>>. Un cantore regge per mezzo di un'asta una stella di carta a cinque punte illuminata all'interno, e che talvolta contiene persino un minuscolo presepe di carta. In passato i tre cantori principali, che interpretavano la parte dei re Magi, s travestivano con mantelli dorati e corone di cartone, e uno di loro, Baldassarre, aveva la faccia dipinta di nero. Il coro di giovani passa per le vie del paese sostando sulla porta di ogni casa e rievocando la nascita del Bambin Gesù tra il bue e l'asinello, la venuta dei Magi guidati dalla stella, e i loro doni. Il canto finisce con questa strofetta:

Or noi ce n'andiam
ai nostri paesi,
da cui venuti siam,
ma qui resta il cuore
in mano al Signore,
in mano al Bambino
al Bambinel gesù.


Al termine della cantatina i giovani raccolgono mance e doni in natura che servono poi per la cena in comune a tarda notte a base di polenta taragna, ovvero polenta mescolata con abbondante formaggio.
Il <<canto della stella>> è un esempio anomalo delle classiche befanate, un tempo diffusissime nei paesi e durante le quali gruppi di contadini correvano per le vie del paese, di casa in casa, cantando <<la befana>> con canzoni dette di questua perché, finite le strofette, chiedevano ed ottenevano doni in natura.
A Rivisondoli, in provincia dell'Aquila, si celebra invece un presepe vivente. Tutta la popolazione rivive la scena tradizionale: i pastori, che giungono dai monti vicini, le donne in costume e i re Magi sono gli attori dello spettacolo. In una capanna Maria e Giuseppe, interpretati da due abitanti del paese, coccolano un bambino che, secondo la tradizione, è l'ultimo nato di Rivisondoli. La scena è arricchita da angeli, suoni e fiaccole.
A Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, l'Epifania non rievoca l'arrivo dei Magi ma, come per tutti i cristiani di rito orientale, il battesimo del Cristo nel Giordano. Il rito è solenne. Il vescovo. accompagnato dai sacerdoti, giunge in processione presso la fontana dei Tre Cannoli. Il corteo è preceduto da gruppi di ragazzi che portano in mano alcuni bastoni su cui sono infilate arance. Giunto alla fontana, il vescovo immerge la croce nell'acqua tenendo in mano tre candele accese e alcune foglie di ruta. Contemporaneamente, una colomba si alza in volo da campanile della chiesa di Maria Odighitria - ovvero <<guida>> in greco - e si posa sulla spalla del vescovo. Allora i ragazzi immergono le arance nella fontana e le distribuiscono, benedette, agli abitanti e agli ospiti come simboli dei frutti del Cristo, Arbor mundi.
Una sorprendente eco dell'Epifania orientale è rimasta nella Pasquella di Recanati, in provincia di Macerata. Durante la notte che precede il 6 gennaio cori di bambini cantano, fra le altre, una strofetta significativa:

Sulle rive del Giordano,
dove l'acqua diventa vino
per lavare Gesù Bambino
per lavare la faccia bella,
giunti siamo alla Pasquella.


Vi sono invece in Italia due usanze che sembrano collegarsi a tradizioni precristiane. Prima che si affermasse la consuetudine dei regali natalizi ai bimbi, ai quali si raccontava che li aveva portati Gesù nella notte, erano i re Magi ad avere questa funzione all'Epifania, in ricordo dei tre doni offerti al bambino per eccellenza. Oggi ancora, in Spagna, è l'Epifania il giorno dei regali che vengono portati dai reyes Magos. A Siviglia, la sera del 5 gennaio, una festosa cabalcada di bambini e ragazzi, accompagna i tre re, impersonati da adulti, per le vie della città.
In Italia invece si è avuto uno sdoppiamento: Gesù Bambino è diventato il dispensatore di regali importanti mentre una figura anomala e non inquadrabile nella tradizione cristiana, la Befana, porta regalucci e addirittura carbone se il piccino non si è comportato bene nell'anno appena trascorso.
La Befana, che nell'iconografia tradizionale appare come una vecchia col viso fuligginoso, gli occhi di brace, i denti felini e affilati, la lingua aguzza e tagliente, abita secondo la leggenda nelle caverne delle montange e una volta all'anno, nella notte fra il 5 e il 6 gennaio, arriva di notte, a cavallo di una magica scopa che inforca al contrario, per sottolineare che non è una strega, e scende per la cappa del camino nel focolare portando piccoli doni ai bambini buoni e, secondo l'interpretazione pedagogica corrente, carbone per i più capricciosi. E' una figura non solo misteriosa, ma pericolosa se non si rispetta la sua invisibilità: chi incautamente volesse sorprenderla mentre deposita i doni incorrerebbe in gravi pericoli. A Roma, dove familiarmente hanno immaginato la sua casa fra i tetti di piazza Navona, è così popolare che le sono dedicate tante canzoncine, come quella che una volta cantavano i bambini:

La Bbefana riccia riccia
tutta quanta inanellata
scende giù con Bbefanino
da la cappa del camino.
Va dicendo a le ragazze:
Siate bbone, nun siate pazze.


Ma la figura della vecchia che porta i regali non è soltanto romana: è detta, per esempio, la Vecchia a Pavia, la Pifanie a Lario Orientale, la Vecia o la Stria a Mantova, Padova, Treviso e Verona, la Pasquetta a Legnano, a Venezia Marantega o Redodesa, nome che si ritrova anche nelle alpi bellunesi con le varianti Redosega, Redosola e Redosa; la Sibilla a Pirano, la Donnazza a Borca di Cadre, l'Anguana a Cortina d'Ampezzo e la Berola in provincia di Treviso, la Vecie o la Strie o la Femenate o la Marangule nel Friuli. A Modena è la Barbasa, a Piacenza la Mara, la Voecia a Bologna.
Questa vecchia misteriosa e inquietante, che appare nella dodicesiam notte dopo quella di Natale, alla fine del periodo di transizione tra il vecchio e il nuovo anno, non ha nulla a che fare con l'Epifania, ovvero con l'arrivo dei Magi che portano i tradizionali doni a Gesù Bambino, se non nel nome: deriva infatti dall'aferesi del latino Epiphania, che dapprima diventa Pifania, poi Bifania, Befania e infine Befana: tentativo evidente di cristianizzare l'inquietante personificazione femminile della festa. E' stata interpretata come un'immagine di Madre Natura che, giunta alla fine dell'anno invecchiata e rinsecchita, assume le sembianze di una befana e prima di morire offre dolciumi e regalini che altro non sono, simbolicamente, se non i semi, grazie ai quali riapparirà nelle vesti di giovinetta Natura. Poteva anche essere cacciata, uccisa, bruciata come una volta nel Veneto quando durante la dodicesima notte si svolgeva un rito basato su un gran chiasso che serviva per scacciare dai campi e dai paesi tutte le forze malefiche. Poi si accendeva un fuoco dove si faceva bruciare il pupazzo orrendo della Vecia: da questa usanza è nato il detto copar la vecia, cioè liberarsi di ogni male. Chi fosse riuscito a portare a casa i cavei, i suoi capelli, si sarebbe propiziato la fortuna per tutto l'anno. Ancora oggi a Goito, in provincia di Mantova, allo squillare dell'Ave si accende il boriello, ossia un gran fuoco. La catasta di legna è preparata con ramiglie su cui si pongono rovi e castagne cavalline che scoppiettano al fuoco come petardi, e infine paglia. Il mucchio può raggiungere anche sei o sette metri e deve avere forma conica. Su di esso si sistema un pupazzo, detto vecia o la stria, che rappresenta la Befana. Si dice che i fuochi si accendono perché la Madonna possa asciugare i pannolini del Bambino o per illuminare la via ai Magi.
Questa Madre Natura non è solo un fenomeno peculiare italiano, ma rivela analogie con la mitologia greco-anatolica e con molte altre tradizioni germaniche e slave. Allude alla Grande Madre, signora della vita, che regna su animali, rocce, vegetali, evocando l'idea della fecondità, dell'abbondanza e della prosperità: madre del cosmo che governa il ciclo terreno di vita-morte-vita: padrona del fuoco domestico, come testimonia fra l'altro il tempio romano di Vesta, che era il grande focolare della grande famiglia romana, dove la dea stessa, priva di immagine antropomorfica, era fiamma vivente.
Ma secondo un'altra interpretazione, se la Grande Madre è l'antenata mitica, la Befana sarebbe invece la manifestazione degli antenati di ogni famiglia. Sicché l'arrivo della Befana è un ritorno temporaneo dei parenti che portano doni importanti per la famiglia, segnando simbolicamente un rapporto tra il mondo dei bambini e quello degli antenati, depositari della tradizione. Questo rapporto è chiarissimo ancora oggi nei doni che i defunti portano ai bambini, in Sicilia, nella notte fra Ognissanti e il il Giorno dei Morti. Tra i doni della Befana vi è la frutta secca, che tradizionalmente ha avuto valore sacro e apotropaico, tant'è vero che nel mondo romano era considerata una strenna di buono auspicio. Le noci per esempio, simbolo di fertilità, venivano sparse in abbondanza quando la sposa giungeva alla casa dello sposo. Quanto al carbone, oltre a esprimere valenza di energia latente, era considerato un amuleto, un vero e proprio dono fatato che aiutava a cacciare malanni e disgrazie. Ci si potrebbe chiedere perché l'antenata debba esser scacciata, bruciata o segata ritualmente: perché, alla luce di questa seconda interpretazione, la comunicazione fra morti e vivi non può durare oltre quel periodo magico di passaggio da un anno all'altro, di caos, di con-fusione fra mondo dei vivi e quello dei defunti, gli antenati: ed è la fine del giorno dell'Epifania a segnare la fine di questa transizione fra un anno e l'altro, del periodo dei prodigi, della comunicazione con l'aldilà: sicché la Vecchia dev'esser bruciata o segata perché si possa instaurare il nuovo anno, il cosmo rinnovato.
D'altronde, la cerimonia di Sega-la-Vecchia, tipica della mezza quaresima e analoga a questa, si svolge all'inizio di primavera. Se pensiamo che fino a non molti secoli fa l'anno legale cominciava sia all'inizio di Gennaio sia all'inizio di Marzo oppure all'Annunziazione, si capisce come l'usanza sia collegata in realtà al passaggio da un anno all'altro.
A un simbolismo diverso si riallaccia un'altra usanza diffusa in varie nazioni europee fino a qualche decennio fa e ora in via di estinzione: il giorno dell'Epifania si eleggeva un Re della fava, così chiamato perché aveva trovato una fava nascosta nella focaccia tipica di questa festa, detta in Francia gallette des rois e sormontata da una coroncina di carote. A sua volta il Re nominava una Regina gettando la fava nel bicchiere della donna prescelta.
Secondo una tradizione che risale ai pitagorici la fava sarebbe il simbolo dell'incessante ciclo di vita e di morte nella caverna cosmica. Nella Vita di Pitagora Porfirio spiega che la fava nasce, come l'uomo e con l'uomo, nella putrefazione. Figura perciò il polo della morte e delle rinascite necessarie, opposto alla vita eterna riservata agli dèi immortali e alle anime che, scese nella generazione, sanno tornare al luogo d'origine dopo essere vissute secondo giustizia e aver compiuto azioni gradite agli dèi. Mangiar fave, sosteneva, è dividere il cibo dei morti, è uno dei mezzi per mantenersi nel ciclo delle metensomatosi, e piegarsi così alle forze della materia.
Questo simbolismo applicato al Re della fava ispirerebbe un scherzoso memento mori con l'allusione al rinnovamento ciclico dell'anno e della vita.
Ma perché allora chiamare la focaccia con la fava gallette des rois? E' soltanto una denominazione ironica? O forse cela un simbolismo diverso da quello pitagorico? L'alchimista Eugene Canseliet ha spiegato a sua volta che <<la fava non è altro che il simbolo del nostro zolfo imprigionato nella materia; vero sole minerale, è anche quello dell'oro nascente, affatto estraneo al metallo prezioso, dispensatore di ogni piacere in terra. E' lui quell'oro giovane verde che doterà l'artista, abbastanza fortunato per giungere fino alla maturità, del triplo privilegio della salute, della fortuna e della saggezza. Ecco perché l'espressione trovare la fava nel dolce significa fare sia una scoperta geniale e importante sia un affare ricco ed eccellente. Inoltre, occorre notare che la fava della focaccia dei re è spesso sostituita con un minuscolo bimbo di porcellana, chiamato bagnante, o con un pesciolino, anch'esso di porcellana, esattamente una sogliola (che nel latino solea ha la stessa radice di sol, sole), e che Cristo all'origine era rappresentato con il pesce, il cui emblema abbonda nelle catacombe romane e il cui nome, Ichthus, preso come monogramma, riunisce nell'ordine le prime lettere greche delle parole che costituivano l'antica divisa: Iesus Christos Theou Uios Soter, ovvero gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore>>."

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Questa Italia non ci piace e forse neppure ci appartiene, ma è pur sempre la nostra madre e la dobbiamo amare comunque, anche se è diventata una prostituta.

Beppe Niccolai


03/01/2010, 16:20
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Visto che oggi è il 17 gennaio festa di Sant'Atonio, perché non leggere qualcosa riguardo questo santo molto popolare in campagna e in special modo nelle stalle degli allevatori?

Un coacervo cultuale

"Oggi il periodo invernale, che dalle feste solstiziali conduce all'equinozio primaverile quando il sole, divenuto adulto, tocca crucialmente e supera l'equatore celeste inaugurando il periodo più luminoso dell'anno, è contrassegnato da feste e cerimonie di segno diverso; alcune orgiastiche, come il Carnevale e la Mezzaquaresima, altre purificatorie e penitenziali, come la Candelora, il mercoledì delle Ceneri e tutto il periodo quaresimale; altre, infine, che rammentano, come Sant'Antonio, antichi riti per propiziare gli dèi preposti alla fecondità e alla fertilità.
Questa con-fusione testimonia di riti e usanze che risalgono alle arcaiche religioni italiche, ma anche alla celtica, diffusa in tutta la Pianura padana, e a tradizioni greche e orientali giunte nella penisola durante la Repubblica e l'Impero romano: un coacervo cultuale sopravvissuto in parte all'evangelizzazione poiché la Chiesa, dopo un periodo di intransigenza nei confronti delle tradizioni pagane, dovette arrendersi alla constatazione che certe usanze erano inestirpabili e altro non si poteva fare, ragionevolmente, se non smussare gli aspetti meno accettabili. Se si descrivessero dunque la festa di Sant'Antonio, la Candelora, il Carnevale, la Quaresima e la Mezzaquaresima con la cerimonia di Sega-la-Vecchia senza rievocarne anche il substrato precristiano – o archetipico? - non se ne coglierebbero i legami con la religione cosmica sulla quale è innestato il calendario cristiano."

Sant'Antonio e i suoi misteri

"Il lungo periodo che preludeva alla primavera, ovvero all'antico Capodanno nell'arcaica religione romana, era contrassegnato da cerimonie per purificare gli uomini, gli animali e i campi, e per favorire, propiziando gli dèi, il rinnovamento del cosmo.
Alla fine di gennaio si indicevano le Feriae sementinae durante le quali si procedeva alla lustrazione dei campi e dei villaggi, e si offriva a Cerere e alla Terra una pozione di latte e mosto cotto, detta burranica, sacrificando loro una scrofa gravida accompagnata dalla usuale offerta di farro, mentre le giovenche adoperate nei campi venivano inghirlandate di fiori e lasciate in riposo. <<State alla pingue greppia cinta di serti, o giovenche>> cantava Ovidio nei Fasti: <<per voi verrà il lavoro con la dolce stagione. L'aratore sospenda al palo l'aratro dimesso: la terra, quand'è fredda, teme ogni solco [...] Faccia festa il villaggio; purgate le ville, o coloni; ponete ogni anno i doni sopra rustici altari. Le madri delle biade si plachino, Cerere e Terra, col sangue di una scrofa pregna, e con il farro loro. Hanno Cerere e Terra comune ufficio: ché quella fa germinare i semi, questa li chiude in seno.>>
Nel calendario odierno ritroviamo in questo periodo molte feste e cerimonie che sotto il velo di un santo hanno una funzione lustrale e fecondante. La più importante, perché ingloba tutte queste funzioni rivelando i legami sotterranei con varie tradizioni precristiane, è quella di Sant'Antonio abate, che cade il 17 gennaio.
[..]
Sicché Sant'Antonio ha assunto a poco a poco le funzioni di divinità pagane così come la sua memoria obbligatoria. D'altronde, nella storia dell'evangelizzazione è sempre successo che i convertiti trasferissero all'interno della nuova fede usanze e riti della precedente, perché si trattava di tradizioni cui non potevano rinunciare, pena la perdita della loro identità. E infatti ancora oggi il 17 gennaio si benedicono gli animali domestici sul sagrato delle chiese dedicate al santo, e fino a qualche decennio fa era pure diffusa l'usanza di offrire doni in natura ai sacerdoti che a loro volta distribuivano immagini di Sant'Antonio da appendersi come amuleti alle stalle. Un'altra usanza di derivazione pagana è la preparazione di un dolce benedetto che viene poi dato a uomini e animali malati, perché Sant'Antonio, che resistette alle tentazioni, è considerato il vincitore del male.
Una sagra che denuncia la connessione con le tradizioni romane è quella delle <<fave cotte>> di Villavallelonga, in provincia dell'Aquila. Narra una leggenda locale che tanto tempo fa un proprietario terriero, non riuscendo a trovare braccianti, imprecava spesso: <<Finirà che farò lavorare la terra al diavolo>>.
Un giorno si presentò un signore offrendosi con altre persone per lavorare i campi. Lo strano individuo aggiunse che non volevano nessun compenso se non un po' di cibo senza sale. Il proprietario, soddisfatto, se ne tornò a casa ordinando alla moglie di preparare il pranzo per i braccianti: ma si scordò di avvertirla che non doveva usare il sale. Quando fu l'ora del pranzo, la donna portò il cibo in tavola, ma quei braccianti dall'aspetto riservato lo rifiutarono disgustati. Allora lei esclamò: <<Gesù, Giuseppe e Maria, come fate a mangiare senza sale? Non sarete per caso diavoli?>>. A quelle parole i giovani con il loro capo più anziano sprofondarono nel terreno spandendo un acre odore di zolfo. E la donna s'inginocchio invocando: <<Sant'Antonio mio, che hai sopportato innumerevoli tribolazioni, ti ringrazio. Tutto il raccolto lo darò in tuo onore alla festa>>.
Da allora, il 17 gennaio, a Villavallelonga si distribuiscono <<fave cotte>> e panetta, una focaccia di farina, sale, uova e anice, mentre si svolge una sfilata di maschere carnascialesche, i mmascar brutt, diavoli acconciati con stracci ripieni di paglia, incatenati, con maschere cornute sulla testa e una cipolla in bocca.
Sant'Antonio è considerato anche il guaritore dell'herpes zoster, ovvero il cosiddetto <<fuoco di sant'Antonio>>. Gli agiografi cristiani collegano a questa funzione l'usanza di incendiare, nella notte che precede la festa, grandi cataste di legna, dette <<falò di sant'Antonio>>, le cui ceneri sono considerate amuleti. In questo contesto il fuoco ha una funzione purificatrice, brucia ciò che resta del vecchio anno, compresi i mali e le malattie.
Ma la spiegazione che ne viene data popolarmente è un'altra, legata alla leggenda: sant'Antonio sarebbe il padrone del fuoco, compresa quella sensazione di bruciore legata all'herpes zoster; e addirittura avrebbe la funzione di custode dell'inferno: ingannerebbe i diavoli sottraendo loro alcune anime non meritevoli delle fiamme eterne.
Una leggenda del Nuorese narra a questo proposito che una volta nel mondo non c'era il fuoco e gli uomini soffrivano il freddo. Un giorno inviarono nel deserto della Tebaide una delegazione, perché pregasse sant'Antonio di procurare loro il fuoco. L'eremita, dopo molte insistenze, promise di aiutarli e andò a bussare, accompagnato dal suo maialino, alle porte dell'inferno chiedendo di entrare.
Quando i diavoli lo videro apparire si spaventarono perché conoscevano i suoi poteri e lo giudicavano invincibile: lo respinsero, ma mentre stavano chiudendo la porta il maialino riuscì a sgusciare dentro e si mise a scorrazzare dappertutto, sconvolgendo la società dei diavoli. Satana e i suoi angeli neri non sapevano più che fare; quel maialetto era inafferrabile. Non c'era che una soluzione, pur sgradita: pregare sant'Antonio di venire nell'inferno a riprendersi la bestiaccia. E il santo, che non aspettava altro, andò nel regno dei dannati con l'inseparabile bastone a forma di tau. Durante il viaggio di risalita in compagnia del maialino, docile e tranquillo, fece prendere fuoco al bastone, sicché giungendo sulla terra poté accendere una catasta di legna: e da allora il fuoco ha riscaldato l'umanità.
Sant'Antonio custode dell'inferno, sant'Antonio portatore del fuoco ovvero della vita agli uomini grazie al maialino che gli permette di entrare nel regno diabolico: tutte queste ingenue storielle non avrebbero alcun senso, tranne che per gli entomologi del folklore, se non celassero, come succede nelle leggende e nelle usanze collegate ai santi dei pimi secoli, un nucleo precristiano. Se d'altronde si riflette su un'altra funzione attribuita al santo, quella cioè di essere il patrono dei fabbricanti di spazzole, che usano setole di maiale per fabbricare i loro prodotti non ancora plastificati, è difficile, anzi impossibile respingere la tesi di un sedimento pagano. Già si è spiegato come molte cerimonie agricole di lustrazione dei campi e di purificazione degli animali, tipiche del mese di gennaio nella Roma antica, si siano trasferite alla festa di sant'Antonio. Anche il maialino, attributo della Grande Madre Cerere, è una prova di questi fili sotterranei che legano passato e presente.
Margarethe Riemschneider ha tuttavia osservato che il maialino era in origine un cinghiale [...]
Il cinghiale era l'attributo di un dio celtico rappresentato come un giovane che porta in braccio l'animale. Secondo la studiosa tedesca, questo dio-cinghiale era il simbolo di Lug, rappresentato anche come dio-cervo e dio del gioco o della divinazione. Lug era colui che risorgeva assicurando la resurrezione dell'uomo e, ogni anno, il ritorno della primavera, della <<luce>>: dunque garante di fecondità e di nuova vita. Era il figlio della Grande Madre celtica cui erano consacrati cinghiali e maiali, come a Cerere.
I Celti lo onoravano al punto di porre una statuetta di cinghiale sull'elmo e di raffigurarlo sugli stendardi. Spalmavano addirittura sui capelli, che portavano corti, una densa poltiglia di gesso perché diventassero rigidi e assomigliassero alla cotenna dell'animale, come testimonia il Galata morente del Museo Capitolino a Roma.
In molte leggende dell'area celtica si narrava la caccia al cinghiale immortale, attuata per impadronirsi di un pettine e di una forbice posti fra le sue orecchie: allegoria della comunione, in forma di cosmesi, con il dio Lug del quale i capelli impomatati in forma di cotenna erano il simbolo. Gli stessi sacerdoti, i druidi, erano chiamati <<Grandi Cinghiali bianchi>>. Neppure il primo medioevo perse la nozione che il cinghiale fosse un animale divino, se correva voce che tutti i re della stirpe merovingia avessero la spina dorsale coperta di setole al pari dei maiali, e se Teofane riferisce che avevano soprannome di <<schiena-peolosa>> o di <<setolosi>>.
Potremmo allora concludere che, come è avvenuto spesso nel cristianesimo primitivo, i Celti convertiti hanno probabilmente trasferito gli attributi di Lug su sant'Antonio – le cui reliquie erano giunte proprio nelle loro terre, in Francia – non curandosi affatto che la moltiplicazione delle caratteristiche potesse inserirsi in modo solo approssimativo nella leggenda. <<La fede popolare, allorché cerca arbitrariamente un sostituto alle sue concezioni, poco si cura della logica della verità storica>> osserva Margarethe Riemschneider. <<Avviene così che né l'attributo né il campo d'azione di sant'Antonio possano armonizzarsi per nulla con la leggenda.>>
Successivamente, il cinghiale venne demonizzato seconda la tradizionale strategia pastorale volta a estirpare il ricordo dell'antica religione precristiana, e sostituito con il maialino la cui presenza fu giustificata con due leggende: la prima narrava che l'animale altri non era se non il diavolo sconfitto dall'eremita, vittorioso sulle celebri tentazioni, e costretto a seguirlo sottomesso; la seconda sosteneva che il santo aveva guarito un giorno un maialino, che da quel momento lo seguiva come un cane.
In ogni modo l'unico fatto certo è che alle reliquie di sant'Antonio, traslate in Francia nell'XI secolo [...], fu attribuita la virtù di curare l'ergotismo [...] grazie al potere dell'eremita sull'inferno e sul fuoco.
Dunque è in terra celtica che si formano le leggende occidentali su sant'Antonio e si elaborano i suoi attribuiti, compreso il maialino. Tutti gli agiografi moderni tentano di giustificare storicamente l'animale ipotizzando che i religiosi allevassero maiali liberi di vagare per le vie e mantenuti dalla carità pubblica: il loro grasso serviva come medicamento nella cura dell'ergotismo. A un certo momento, per motivi d'igiene, si decise di eliminare tutti gli animali dalle vie dell'abitato, tranne i maiali degli ospedali antoniani, che per essere riconosciuti dovevano portare al collo una campanella, anch'essa diventata attributo del santo.
Ma è un'ipotesi fragilissima se si riflette che, anticamente, la campana era il simbolo del grembo materno, connessa dunque, come il maialino, alla Grande Madre e a suo figlio. Sicché la campanella antoniana, che il santo porta con sé nell'iconografia tradizionale, è in realtà non il <<ricordo>> dei maialini dell'ospedale francese, ma il simbolo della morte e della resurrezione.
In un diverso contesto teologico anche il sommo sacerdote ebraico portava sull'orlo del vestito campane e melograni alternati, che esprimevano lo stesso simbolismo di morte e resurrezione, ma anche quello della fertilità, poiché nel processo riproduttivo essa comprende morte e rinascita insieme. <<Perciò>> commenta la Riemschneider <<alla messa il rintocco della campanella si fa udire all'elevazione, cioè allorquando l'ostia si transustanzia nel momento della produzione, della vivificazione di ciò che non ha vita. La campana, posta sopra o dentro le tombe, risponde allo stesso fine>>.
Vi sono troppi elementi per non ritenere per non ritenere infondata questa tesi. Si aggiunga che Lug, dio della morte e della resurrezione, regnava, come tutte le divinità con questa funzione, sugli inferi. Perciò nel processo di cristianizzazione della sua figura, anzi della sua funzione, sant'Antonio assunse anche quella di custode dell'inferno, divenne colui che poteva salvare le anime destinate alla dannazione, e dunque <<padrone del fuoco>>, omologo alle fiamme infernali; e infine, per il suo legame simbolico con il cinghiale-maiale, diventò il patrono dei fabbricanti di spazzole.
Solo seguendo questo itinerario fra religiosità pagane e cristianità medievale si può spiegare l'enorme e a prima vista incomprensibile popolarità in Occidente dell'anacoreta egiziano e della sua festa in cui, come si diceva, si portano a benedire gli animali domestici per scongiurarne le malattie e favorirne la fecondità. [...]"

Alfredo Cattabiani - Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell'anno.

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Beppe Niccolai


17/01/2010, 16:23
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