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STORIE INVENTATE, STORIE REALI, STORIE DI CAVALLI... 
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Sez. Cavalli
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VELENO

Questa storia sarà pur successa, da qualche parte...

Mario Ferraboschi al tempo in cui accaddero i fatti che vado a raccontare non era più giovane, anzi aveva superato ormai abbondantemente la sessantina.
La sua vita era trascorsa passando dalla schiena di un cavallo ad un’altra, da una merca ad un’altra, da una nascita di vitelli e puledri ad un’altra, con il ritmo delle stagioni che regolava le sue giornate. Era un gran domatore, profondo conoscitore degli animali, vacche e cavalli, che erano affidati alla sua responsabilità. Li conosceva uno per uno, vacche, cavalli, puledri o vitelli che fossero, li riconosceva da lontano e sapeva giudicare con una rapida occhiata lo stato di salute delle bestie.
Con i cavalli non usava smancerie, anzi, agli occhi di un profano appariva rude e sbrigativo eppure i cavalli cedevano ai suoi comandi quasi riconoscessero in lui il padrone del loro destino e si sottomettevano senza che usasse una vera violenza, se non quella psicologica di mostrarsi dominante, caratterialmente più forte, e tanto bastava.

A quel tempo la sua cavalcatura era un poderoso stallone maremmano, Veleno si chiamava, un nome un destino, solo Mario poteva montarlo.

Giuggiolo, a dispetto del nome, era invece un maestoso Toro Maremmano. Il razzatore della masseria. Giuggiolo non era facile da trattare, col piede a terra era pericoloso, tendeva a caricare. Col cavaliere aveva più rispetto ma bisognava sempre stare ben accorti che più di una volta si era provato, durante gli spostamenti da un pascolo all’altro, di deviare la sua corsa verso il buttero che guidava il branco, quasi volesse saggiare l’invincibilità del binomio. Allora bastava andargli incontro con decisione agitando la mazzetta e lanciando grida gutturali che lo inducevano a riconsiderare le sue intenzioni ed a tornare in mezzo al branco delle manze.

Quella sera di agosto, minacciava uno di quei forti temporali estivi, il branco delle manze si era portato a vista dei butteri, nel pascolo vicino alla masseria. Mario gettò lo sguardo al branco per dare una controllata e in mezzo alle vacche vide subito che Giuggiolo non c’era.
- Sarà rimasto indietro a mangiare qualche ramo ancora verdeggiante – pensò Mario, ma dopo un’ora del toro non c’era ancora nessuna traccia.
Il cielo si era fatto nero come la pece, le nuvole gonfie di pioggia si erano ammassate chiudendo l’orizzonte e i lampi annunciavano il forte temporale ormai imminente.
Toccava ritrovare il toro. Veleno lo accolse con un nitrito quasi di disapprovazione mentre Mario gli metteva la bardella, aveva più cervello lo stallone del cavaliere, che uscire con quel tempo era da matti. Ma bisognava ritrovare Giuggiolo, chissà, forse era caduto in qualche forra e non riusciva a risalire.
Partirono che cominciavano a scendere i primi goccioloni di pioggia. Vagarono a lungo per i pascoli sterminati della masseria e dopo un paio d’ore, ormai bagnati fino al midollo, finalmente trovarono il toro. Il maledetto si era trattenuto con un paio di manze venute da chissà quale masseria vicina e non aveva fatto ritorno col suo branco.
Mario diede di sprone a Veleno e insieme andarono a riprendere il toro, ma questi non voleva saperne e dopo alcune piroette, non potendosi liberare data l’abilità del binomio nel controllarlo, improvvisamente e inaspettatamente si voltò su se stesso e colpì Veleno in una coscia, tanto quanto bastava perché il cavallo perdesse l’equilibrio rovinando sopra a Mario che, fortunatamente, riuscì a liberarsi dalle staffe mentre un dolore lancinante lo colpiva alla gamba che era rimasta sotto il corpo del cavallo. Veleno si rialzò prontamente con un rivolo di sangue che scendeva dalla coscia mentre Mario restò a terra con una gamba rotta. Giuggiolo, vistosi liberato e non notando Mario a terra che l’allontanarsi del cavallo lo aveva tranquillizzato, tornò a concentrare le sue attenzioni sulle due manzette.
Pioveva che Dio la mandava. Con la gamba rotta, senza cavallo e lontano dalla masseria Mario cominciò a pensare che la sua ora era arrivata, il dolore era tale da non consentirgli di alzarsi, e poi dove sarebbe andato con la gamba rotta? No, bisognava rassegnarsi, era giunto alla fine del suo percorso, e in fondo ci era arrivato dalla sella di un cavallo, senza soluzione di continuità la sua vita finiva, come era sempre stata, passando dalla sella di un cavallo.
Guardò il cielo mentre la pioggia gli rigava il volto, almeno quel toro l’avesse preso meglio, tutto sarebbe stato più breve e più facile…

Veleno arrivò alla masseria di gran carriera con il posteriore insanguinato malgrado la pioggia torrenziale. Gli altri butteri che aspettavano ansiosi il ritorno di Mario immaginarono che era successo l’irreparabile… ma Veleno non entrò in scuderia, rimase fuori sotto la pioggia lanciando forti nitriti e raspando la terra con le zampe anteriori. – Che ha sta bestiaccia, lascialo perde e andamo a cercà a Mario- dissero i butteri mentre sellavano le loro cavalcature.
Appena furono fuori in sella Veleno si lanciò al galoppo nella direzione da cui era venuto, poi si fermò a guardare cosa facevano i butteri - … è matto – dissero questi – ma andamoje dietro, hai visto mai che ce porta da Mario? –

E fu così, galoppando davanti e rallentando ogni volta che i butteri esitavano Veleno li guidò dal suo cavaliere…

Qualche giorno dopo, Mario seduto all’ombra del portico dove si era fatto portare dai suoi butteri, con la gamba ingessata guardava il suo Veleno che brucava tranquillo l’erba del prato – che cavallo – pensava Mario – che cavallo, c’ha n’ sentimento e tutti n’el capisce!- diceva tra se e se!

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17/04/2013, 10:40
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FANCIULLA

Fanciulla era una cavalla Maremmana!

All’epoca dei fatti aveva 7 anni. Aveva il mantello baio oscuro, nessuna macchia o balzana, solo un fiore in fronte a forma quasi di margherita.

Era una cavalla poderosa, bella testa leggermente montonina, incollatura possente, schiena corta e groppa un po’ spiovente ma larga, possente. Le stincatura era da manuale e gli appiombi dritti come fusi, lo zoccolo scuro era forte, tanto che non necessitava neanche della ferratura.

Mario l’aveva domata a 4 anni e l’aveva iniziata al lavoro nella masseria. Era caratterialmente difficile, strappata dai verdi pascoli all’età di 4 anni quasi digiuna del contatto con l’uomo, aveva mal digerito la sbrigativa rottura di collo, la capezza, la bardella e quell’ingombro sulla schiena che impartiva ordini ai quali il morso la costringeva ad ubbidire malvolentieri.
E ci provava, ogni volta, quando al primo albeggiare si partiva per il lavoro quotidiano una bella sgroppata era garantita e Mario, che la conosceva bene, quasi si divertiva a quelle potenti rallegrate, che comunque servivano per stabilire, ogni giorno, le gerarchie.
Fanciulla non amava il lavoro con l’uomo, era sempre riottosa ai comandi e spesso, purtroppo, serviva la costrizione perché lei non si decideva ad iniziare a collaborare.

Tuttavia c’era una cosa per la quale Fanciulla era unica: il lavoro con il bestiame!

Fanciulla aveva innato l’istinto del controllo del bestiame, gli americani lo chiamano “cow sense”, e questo faceva di lei una grande cavalla mandriana.
Dopo tutte le peripezie durante il tragitto dalla masseria al pascolo, arrivati presso la mandria, bastava mollare il morso, lasciarla libera di bocca che lei “sapeva” cosa fare e come farlo. Questa dote non da poco faceva di lei una cavalla preziosa e le faceva perdonare tutte le intemperanze cui sottoponeva giornalmente il suo cavaliere.

Il fatto che vado a raccontare accadde però in assenza di Mario!

Fanciulla, dopo una settimana di lavoro continuativo, era stata lasciata nel recinto della masseria per un po’ di riposo. Mario era uscito con Veleno, lo stallone della masseria. Tutti i Butteri erano fuori quel giorno che c’era da radunare tutte le bestie nei pressi della masseria per l’annuale merca.
Man mano che i Butteri avvicinavano le vacche maremmane con i loro vitelli queste venivano ammassate in un grande recinto vicino alla masseria, un grande orto, che doveva bastare per fornire verdura per tutti i lavoranti della masseria, separava il recinto delle vacche dal recinto in cui oziava Farfalla.
Man mano che la giornata avanzava il numero delle bestie ammassate nel recinto diventava sempre più alto.

Fu verso le 2 del pomeriggio che accadde il fattaccio.

Tutti i Butteri erano ripartiti per i pascoli, nella masseria erano rimasti solo i lavoranti che nulla sapevano del lavoro con il bestiame, e fu allora che le bestie sfondarono il recinto, proprio dalla parte dell’orto dove un paio di lavoranti stavano zappando i solchi di patate per togliere le erbacce. Alla vista delle lunghe corna che si avvicinavano i lavoranti mollarono le zappe e, gridando, corsero verso la masseria.
A quelle grida Fanciulla alzò la testa e vide cosa stava accadendo. La cavalla non fece ne tre ne quattro, saltò la staccionata e andò incontro alle vacche.

Scossa, senza guida, fu uno spettacolo!

Volteggiò maestosamente a destra e a sinistra, deviò le vacche, bloccò le più riottose con aria minacciosa e tanto fece e tanto brigò che le vacche alla fine si rassegnarono e rientrarono tutte nel loro recinto! Uno spettacolo!
Fatto il lavoro, Fanciulla rimase a lungo ad osservare il comportamento delle bestie poi, rassicurata che tutte erano dentro e non mostravano l’intenzione di uscire di nuovo, tornò indietro, saltò di nuovo la staccionata e tornò nel suo recinto.

La sera, quando raccontarono a Mario l’accaduto, Mario si girò scontrosamente dall’altra parte lasciando di stucco gli altri lavoranti che così non poterono vedere quel luccichio negli occhi di Mario, e neanche quella goccia che, da un occhio, era arrivata sulla punta del naso aquilino di Mario: “che cavalla… Che Cavalla!!!” continuava a ripetere tra se e se.

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17/04/2013, 11:31
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MECO E VOLANTINA

non so se ho già raccontato questa storia, è una storia vera, il racconto di un vecchio buttero che ormai non c'è più, e di una grande cavalla che ora probabilmente galoppa col suo buttero per i sentieri infiniti di chissà quale Paradiso dei cavalli e degli uomini di cavalli.

Io ho conosciuto MECO durante una delle fiere cavalli di Verona dove ho partecipato col mio fido Delfino del Catria. MECO era già vecchio e ormai non partecipava più alle evoluzioni in sella dei butteri però lui era una presenza ormai scontata della Maremma, vestito di tutto punto alla buttera era sempre li a dare un consiglio, un'indicazione, un'occhiata ai cavalli...
Dormiva in un locale della fiera adiacente al ring delle esibizioni che era un po' il quartier generale dei butteri e il posto dove la notte venivano custodite al chiuso le bardelle e le scafarde per evitare che venissero rubate.

Come dicevo, io ero li in rappresentanza della razza Catria ed avevo armato alla buttera il mio Delfino per onorare, con un cavallo italiano, la tradizione equestre italiana. E così anch'io avevo il problema di sistemare la mia bardella per evitare di portarla avanti e indietro dall'albergo. Con un po' di timore reverenziale, che si sa che i butteri non è gente che la manda a dire, scontrosi e scorbutici come certi cavalli maremmani, mi avvicinai per chiedere la cortesia di lasciare anche la mia bardella. Il mio Delfino è un bel cavallo, i butteri lo avevano visto lavorare senza redini nell'arena e lo avevano apprezzato e questo fu il mio lasciapassare, mi accolsero come uomo di cavalli tra uomini di cavalli e la mia bardella trovò riparo per la notte!

MECO amava raccontare, e a me piaceva ascoltare...

Il racconto fu la logica conseguenza e MECO iniziò a parlare con quella sua cadenza direi "laziale" più che romana.

Da un allevatore del posto aveva visto una pulledra (come dicono loro) che gli piaceva, non che lui non avesse puledri, ma quella gli piaceva, dritta, bella struttura, testa espressiva ma soprattutto fiera come poche volte gli era capitato di vedere.

La prese da lontano, dovete sapere che se uno vuole un cavallo, da quelle parti e con quegli uomini, non lo darà a vedere al proprietario, anzi mostrerà disinteresse per l'animale, e se lo tratterà dovrà quasi apparire come se stesse facendo un piacere all'altro. Ma l'altro era un buttero pure lui, che adottava la stessa tecnica... Così la trattativa andò per le lunghe, tra un bicchiere di vino e una chiacchiera mirata a sviare l'altro. Sta di fatto che alla fine l'altro fece una richiesta, una richiesta che era più bassa di quanto MECO sarebbe stato disposto a spendere, ciò non di meno la trattativa durò ancora a lungo per spuntare ancora qualcosa, che allora il piacere della trattativa era forse più importante dell'affare stesso. Ed era grande il piacere di MECO nel raccontarmi le fasi dell'acquisto.

Comunque alla fine si dettero la mano e l'affare era concluso, che li una stretta di mano valeva più di mille fogli scritti.

Da quelle parti i cavalli si mettevano, forse ancora oggi, su un camion bestiame scoperto e si portavano da un posto all'altro e così fu per quella puledra. Non senza difficoltà riuscirono a far salire la riottosa cavallina sul camion, chiusero la sponda e via verso casa.

E qui viene il bello. L'indomita puledra durante il viaggio, non si sa come, ma si sciolse e, semplicemente, SALTO' DAL CAMION IN MOVIMENTO. Incredibilmente non si fece nulla.

"ma allora l' nome te l'hai portado", MECO mi disse che pensò, " te chiamo VOLANTINA..." le disse.

E mentre raccontava gli occhi si facevano lucidi al ricordo.

La doma non fu facile ma alla fine VOLANTINA era diventa "...la mejo cavalla sobriada de la Maremma..." e qui di nuovo occhi lucidi.
Erano stati dappertutto, anche in televisione quando avevano celebrato "coj merigani, quello li de Bufalo Bille"

Io avevo la cassetta registrata di quell'avvenimento che avevano dato in tv in una puntata di “A come agricoltura”, ai tempi di Federico Fazzuoli, e gli dissi che che gli e ne avrei mandato una copia, "...davero? Te do n bijetto da visida mio pe l'indirizzo" mi disse, e sul biglietto, che ho ancora conservato, c'era scritto: MECO e VOLANTINA via................

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17/04/2013, 12:55
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UNA CAVALLA SFORTUNATA

In quel periodo il mio lavoro mi portava a girare l'Italia in lungo e in largo.

In questo girovagare mi ero organizzato in modo da poter visitare nei ritagli di tempo i vari allevamenti in giro per il paese.
Il mio cuore batteva (e batte tutt'ora) forte per i Quarter Horses, per quello che rappresentano come simbolo del West e per tipo di cavallo, morfologia, carattere ecc ecc.

Andavo nei maggiori allevamenti, guardavo cavalli inarrivabili, magari appena arrivati dagli USA dove, magari, avevano vinto grandi gare tra le redini di leggendari trainers. Passare una mano su quei dorsi muscolosi, su quelle groppe possenti, assaporare in qualche modo un po' di quella gloria di cui si erano coperti negli US era un'emozione tutta da vivere, e forse difficile da capire per i più.

Avevo già uno stallone Quarter Horse, Locko Lena si chiamava, nipote del grande Doc O Lena. Era un cavallo molto forte ma anche molto "caldo", forse troppo. Con gli occhi di oggi direi che era un animale troppo "caldo", sarebbe stato da castrare, ma gli occhi di allora non volevano saperne. Era il mio Stallone, un'emozione unica montarlo, come stare seduti su una cartuccia di dinamite!

Quello stallone, a mio avviso, era di due dita troppo lungo. Quindi girando questi allevamenti, oltre ai cavalli leggendari, guardavo i puledri, i 2 anni in particolar modo, e il mio occhio si soffermava sulle puledre. Non che avessi in programma un acquisto, ma le guardavo in quella possibile prospettiva futura e cercavo cavalle "corte", compatte. L'obiettivo evidente era compensare in qualche modo le due dita di troppo del mio stallone per ottenere prodotti morfologicamente equilibrati.

Un pomeriggio mi trovavo a Reggio Emilia ed andai a vedere il Ferrarini QH. Struttura da sogno, lo stallone di punta, allora Pepper Pride era una leggenda tra gli appassionati, i puledri, tutti belli... Sembrava una visita come tante, poi da un box l'addetto tirò una puledra saura, elegante, testa espressiva, bellissima incollatura, guardo gli appiombi, dritti come un fuso, schiena corta e larga, groppa possente e muscolosa! Bella bella bella, no di più!!!

Mi feci dare la copia del documento e partii con l'animo in subbuglio!

Tornato a casa adottai una tecnica avvolgente e aggirante, argomentai con convinzione e tanto feci che ottenni il nulla osta!

Una sfibrante trattativa con il padrone, un assegno doloroso e portai a casa la magnifica PEPPER PRIDE MISSY! Una cavallina di una bellezza straordinaria e di una dolcezza disarmante! Bella come il sole e un cuore da grande cavalla.

Comprata una due anni cominciai a pensare come valorizzarla. Dovevo portarla da un addestratore ma costavano come il fuoco. Alla fine trovai un bravo ragazzo che accettò di lavorarla a condizioni accettabili. La faccio breve: arrivò la data della gara d'esordio, il Futurity e la presentammo.

Il Futurity consisteva in due Go di qualificazione e la somma dei punteggi dava la classifica dei finalisti, alla finale accedevano una quindicina di cavalli. La gara era giudicata da 3 giudici e purtroppo nel 2° Go uno dei giudici vide, o credette di vedere, un'infrazione, un passo di trotto, in una fase del percorso che prevedeva un rallentamento del galoppo e le diede 3 punti di penalizzazione e la cavallina fu la prima esclusa dalla finale, esclusa per un solo punto!!!
Guardando la cassetta del Go apparve chiaro che la cavalla aveva solo rallentato vistosamente ma non era passata al trotto, tant'è che un solo giudice fu tratto in inganno, ma tant'è, la prova televisiva non contava.

Tornammo a casa un po' mesti e presentai la cavallina al mio stallone! Passò l'inverno ed a primavera nacque un bel puledro sauro. Fu una cosa straordinaria quella nascita, una grande emozione ma purtroppo la sfortuna era ancora in agguato.
Il puledro non aveva ancora un mese che mio padre mi chiama che la cavalla era strana. Mi precipito e capisco subito che si trattava della cosa che un proprietario di cavalli teme di più: una maledetta colica!

Era sabato sera, non vi dico le peripezie per trovare un veterinario. Alla fine arriva ma non c'era verso, la cavalla peggiorava... Verso le 23,00 mi dice che c'è solo una possibile speranza: operarla! A Bologna c'è una clinica che sarebbe in grado di farlo. Telefoniamo, prendiamo accordi velocemente, troviamo un trailer tra mille peripezie e, verso mezzanotte riusciamo a partire con la povera bestia che non ne poteva più!

Arriviamo a Bologna verso le 2,30 del mattino, troviamo l'equipe pronta per l'intervento, prendono la cavalla e si chiudono in sala operatoria!!! Siamo lì, io, un mio amico che mi aveva accompagnato e una sua amica... Passano, credo, un paio d'ore e ricompare il chirurgo. L'intervento è riuscito, esce anche la cavalla, sedata su una speciale barella per cavalli. Ora c'è solo da aspettare.

Facciamo colazione nell'unico bar aperto a quell'ora e aspettiamo che la cavalla si svegli. All'alba il chirurgo ci dice che tutto era andato bene, la cavalla si era svegliata bene e adesso c'era solo da aspettare qualche giorno.

E così la riportai a casa, la tenemmo in un box per parecchi mesi, tutto l'inverno e la primavera inoltrata lasciandola qualche ora al giorno in un paddock. A primavera sembrava tutto si fosse sistemato al meglio. La ripresentai allo stallone e, all'inizio dell'estate la riportai nel mio pascolo con un'altra Quarter Horse che avevo preso in affitto per coprirla col mio stallone. Era un piacere guardarle al pascolo, c'era tra le 2 cavalle un'armonia unica ma, ancora una volta, la malasorte era in agguato.

Come spesso accade in questi casi, in un caldo pomeriggio d'estate la cavalla fu di nuovo colta da colica. Fortissima, il veterinario chiamato d'urgenza fece varie punture che non sortirono alcun effetto, e non ci fu neanche il tempo per valutare un'eventuale nuovo intervento, a un certo punto girò gli occhi e morì con la testa sulle mie gambe.


Ora è sepolta nel mio pascolo. Nel punto dove è seppellita è rimasto un piccolo monticello di terra, impercettibile per chi non lo sa, e anche l'erba sembra crescere in modo diverso. Ma magari sono solo i miei occhi a vedere queste cose.

Quel puledro rimasto orfano a così pochi giorni dalla nascita è oggi un possente cavallo da Reining, ogni tanto lo vedo nelle classifiche delle gare regionali ed è anche un ottimo cavallo per principianti e bambini. Bricco è il suo nome di scuderia, che è la storpiatura di birichino, nome col quale mio figlio piccolo lo chiamava senza saper dire bene la parola.

Questa è la storia di Pepper Pride Missy, una cavalla tanto bella quanto sfortunata

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18/04/2013, 17:54
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ROMINA DEL CATRIA


Volevo tornare a cavallo da casa mia al maneggio che frequentavo allora.

Sono passati tanti anni (forse troppi ), la mia cavalcatura era allora la mitica Romina, la mia prima cavalla. Era Romina una Catria possente, un posteriore impressionante, alta intorno al metro e 58 cm, con la testa che, pur non essendo montonina, ricordava il sangue maremmano che scorreva nelle sue vene come in tutti i catria... Romina aveva una sua saggezza, tipica credo dei cavalli cresciuti bradi, sicura di piede come pochi, affidabile con i bambini (ricordo una volta in cima al monte Catria una bambina non riusciva a controllare la sua cavalla che usciva continuamente e pericolosamente dal sentiero e allora le diedi la mia Romina ed io montai sulla sua e Romina fu serissima, attenta e prudente nel condurre in cima la ragazzina...), e tuttavia spesso il sangue maremmano (o perlomeno gli stereotipi riferiti al maremmano) usciva fuori con improvvise rallegrate, specie all'inizio delle passeggiate, alle quali ero ormai abituato e che anzi facevano ormai parte del "folclore" di quella cavalla.

Ma torniamo a noi, il percorso da casa mia al maneggio era di circa 25 km seguendo le strade normali ma io avevo studiato un percorso alternativo fatto a tratti dai sentieri tracciati dai muli dei boscaioli ed a tratti dalle strade campestri che speravano i vari appezzamenti. Avevo solo un'incognita, l'ultimo tratto, in linea d'aria forse 100 o 200 metri, non di più. Molti di più invece farli da terra perchè significava scendere la costa del monte in mezzo ad una macchia ripida e fitta percorsa da mille sentieri trasversali che avrebbero dovuto portarci fino al fiume, attraversato il quale il gioco era fatto.

Fu un errore sottovalutare quel tratto, in verità l'avevo stimato facile guardandolo dalla strada dall'altra parte del fiume perché le tracce dei sentieri, visibili dalla strada, mi pareva che comunque avrebbero condotto, prima o poi, al fiume, ma non era così.

Arrivati all'inizio della costa iniziammo la discesa. Fu facile all'inizio, un sentiero ben segnato scendeva tagliando trasversalmente il ripido fianco della montagna, avanzando si incrociavano altri mille sentieri appena accennati, ed il sentiero stesso, all'inizio così ben tracciato, andava sempre più diventando quasi un impercettibile traccia nel fitto della macchia, anzi a un certo punto scomparve proprio in mezzo ad un groviglio di rovi, alberi caduti, erba alta... Impossibile avanzare. Con l'animo ben disposto tornammo indietro pronti a provare una delle deviazioni che avevamo visto più indietro.
Ora sembra facile, ma ad essere li non lo sembrò affatto. Tutti i sentieri sparivano, ogni volta tornavamo indietro per provarne uno nuovo ma tutti inesorabilmente finivano in intrecci insuperabili o sull'orlo di qualche erta tanto ripida da sconsigliare qualsiasi tentativo. Chiaramente l'avanzata era con il cavallo alla mano, e sali, e scendi, e scendi ancora, poi risali, e riscendi... ero scoraggiato, avevamo perso qualche ora, ero anche stanco...
Fu allora che Romina prese un'iniziativa inaspettata, arrivati ad una biforcazione prese decisa una direzione, ero così scoraggiato che la lasciai andare e mi attaccai alla coda, fu una salita ripidissima con la cavalla che andava con grande sicurezza e determinazione ed io attaccato alla sua coda, a pochi centimetri dalle impressionanti leve costituite dai suoi posteriori. Sali sali arrivammo ad un sentiero ben tracciato, non larghissimo, ma percorribile anche stando in sella. Arrivati la cavalla si fermò e si mise a brucare l'erba li intorno (tipico dei Catria...). Ripreso fiato valutai che valeva la pena dare ancora fiducia alla cavalla che di buon grado accettò il comando di seguire quel sentiero.

Seppi poi che era quello il sentiero seguito dai mulari che, facendo un largo giro, aggirava il punto dal quale io pensavo fosse possibile scendere e che era invece troppo scosceso.

Probabilmente Romina aveva riconosciuto i luoghi della sua infanzia e si era comportata come avrebbe fatto se fosse stata libera di pascolare sul monte come aveva fatto da puledra.

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21/04/2013, 16:43
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QUANDO NASCONO I PULEDRI

Quell’anno la pancia di Bimba era spropositata.

In verità la cavalla non sembrava soffrirne, stava in mezzo alle altre giumente gravide senza curarsi dell’incredibile ingombro del suo pancione. Anzi, era sempre la prima a presentarsi al lavorante che arrivava con le musette per le quotidiane razioni di biada, agile e disinvolta si districava tra le altre cavalle ed era sempre la più affamata.
Più di una volta era stata vista anche esibirsi in allegre sgroppate che le sue dimensioni avrebbero fatto sembrare impossibili, ma lei non se ne curava e passava le sue giornate in totale armonia col mondo.

L’anno prima l’avevano presentata a Veleno, lo stallone di casa, che l’aveva montata con la consueta foga, poi aveva passato l’estate e l’inverno al lavoro col suo cavalcante, a marzo l’avevano messa nel recinto delle fattrici prossime al parto. Ora, a fine aprile, ogni giorno era buono.

Bimba era una Maremmana di 10 anni, aveva già prodotto 4 splendidi puledri, il più vecchio prometteva di diventare un bello stallone e più di un commerciante gli faceva il filo; Mario, il massaro dell’Azienda, sconsigliava caldamente il padrone di dare via quello stalloncino, ci vedeva il successore di Veleno sia per la morfologia che per il carattere, disponibile e volonteroso al lavoro e di buona attitudine mostrava tutte le doti per diventare in futuro un buon riproduttore. Le altre 3 erano 3 belle femmine, tutte e tre ancora da domare.
Era sempre andato tutto bene, aveva sempre partorito da sola, come si conviene ad una buona maremmana, facendo trovare al mattino il puledro che scorrazzava allegramente intorno alla madre. Ma quell’anno, a dispetto della mole della pancia, non si decideva a partorire.

Mario cominciava ad essere un po’ preoccupato, troppo grossa e troppo in ritardo.
Poi finalmente, una calda mattina di inizio maggio, nel quotidiano giro di controllo, notò gli zoccoli posteriori di Bimba bagnati di un liquido biancastro e denso e la mammella della cavalla gonfia e turgida e dai capezzoli usciva, anzi, quasi schizzava fuori, il latte.

-Ci siamo – pensò Mario.

Mario era un vecchio uomo di cavalli, senti la muscolatura del posteriore bella rilassata, allentata. Tutti segni premonitori del parto imminente, tuttavia la pancia non lo convinceva. Era si scesa, segnale che il puledro stava cambiando posizione per mettersi con la testa e gli anteriori in posizione di uscita, tuttavia era molto “piena” anche in alto, troppo piena, troppo grossa.

Quando sentì in cima alla strada lo schioppettio tipico della motocicletta con sidecar di Giacomo, era già quasi buio.
Giacomo era il veterinario della zona. Sembrava uscito da una moderna pubblicità, occhiali da motociclista, casco di cuoio, due baffoni neri e folti, viaggiava con una fiammante Moto Guzzi Falcone 500 dotata di carrozzino nel quale riponeva ordinatamente tutti gli attrezzi del lavoro.
Mario l’aveva chiamato, che non si sentiva tranquillo con quella cavalla e questi, appena sceso dalla moto, visitò Bimba e sentenziò: -Mario, qui bisogna aspettare, può andare tutto bene ma può anche avere bisogno di aiuto, armiamoci di pazienza e aspettiamo –

Si misero sotto la tettoia, Mario accese la pipa e Giovanni uno dei suoi lunghi e puzzolenti toscani e iniziarono a discutere del più e del meno… cioè di cavalli e di vacche e di episodi passati… di quella tal fattrice… di quel tal stallone, o di quel toro… e quella vacca che aveva fatto tre vitellini…

Il tempo passava tra una chiacchiera e l’altra, un sigaro e l’altro, una carica di pipa e l’altra… Si erano fatte le 2,00 del mattino quando videro Bimba coricarsi e rialzarsi, raspare per terra guardarsi la pancia. – Ci siamo – dissero all’unisono.
La cavalla stava rompendo le acque, una “vescica” gonfia apparve nel posteriore e dopo poco la cavalla si coricò ed espulse in un battibaleno il puledro.
-E’ andata – dissero i due con un sospiro di sollievo,- aspettiamo che il puledro si attacchi-.
Infatti il puledro cominciò il difficile e faticoso lavoro iniziale di ogni nascituro equino, quello di alzarsi sulle quattro tremolanti zampette per prendere il primo, preziosissimo, latte. Tutto normale fin qui.

Quello che non era normale era invece il fatto che la cavalla non si alzava!

Giacomo ruppe gli indugi e si avvicinò a Bimba, la cavalla aveva evidenti dolori – forse non riesce ad espellere la placenta – pensò Giacomo. E mentre era li che girava intorno alla cavalla in attesa di maturare la decisione migliore sul da farsi una nuova “vescica” gonfia si presentò sotto la coda della cavalla, questa si contrasse nello spasmo di quell’attimo, si contorse, come ad un bivio… tra la vita e la morte…

E vinse la vita! Un istante che apparve infinito ed un altro paio di zoccolini si presentò nel posteriore della cavalla, poi una piccola testa, poi un altro puledro!!!

-E’ due – gridò Giovanni, - E’ due, è due - gli fece eco Mario (con quel modo di usare il verbo al singolare che tradiva le origini marchigiane dei due)

Al mattino Bimba era in perfetta forma, si aggirava guardinga nel pascolo con due puledri che le trotterellavano allegramente intorno alternando brevi poppate a lunghe pause sdraiati in mezzo all’erba ormai asciugata dal sole di quel mattino di maggio.

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GIOVANNI E LA SUA MAREMMA

Giovanni non aveva preso moglie, superata ormai abbondantemente la quarantina aveva accantonato l’idea di trovare una donna con cui condividere la propria esistenza.
Era un omone alto e grosso con le mani che sembravano badili, callose e forti erano il terminale di due braccia poderose che partivano dalle larghe spalle asciutte e muscolose, testimonianza di una vita di duro lavoro.
Viveva da solo. Aveva ereditato un grande appezzamento di terra da pascolo, con una macchia e anche un poco terreno coltivabile, ma in verità Giovanni non lo coltivava affatto. Nel suo terreno allevava bestiame, Bovini e Cavalli entrambi di razza Maremmana.
Il bestiame era la sua vera grande passione, l’allevamento, il commercio dei bovini e dei cavalli, la doma e l’addestramento dei cavalli erano le sue occupazioni quotidiane. Ed in questo era molto bravo.
Certo, la sua casa non era esattamente un modello di ordine che, vivendo da solo, si aggiustava un po’ alla meglio, così come poteva. In effetti la casa era una grande costruzione che, si vedeva, aveva ospitato una famiglia numerosa con bambini che avevano scorrazzato tra le stanze, l’aia e gli ambienti della masseria. Ma quei tempi erano passati e oggi Giovanni ne occupava solo 2 stanze, la cucina ed una camera, e si può tranquillamente dire che l’ordine non vi regnava sovrano.

Era fondamentalmente timido, tanto bravo con i cavalli quanto impacciato e timido con le persone, specie con le donne.
Perdeva la sua timidezza solo quando trattava la compravendita del bestiame, li era nel suo mondo, ne conosceva bene le regole e sapeva destreggiarsi con perizia tra vendite e acquisti di bovini e cavalli traendone sempre un adeguato profitto.
Questo gli permetteva di disporre di una certa agiatezza, agiatezza che però non traspariva agli occhi di un osservatore, camicie sempre un po’ stropicciate, pantaloni in pelle del diavolo, scarponi, e gambali quasi sempre indossati non facevano certo pensare ad una persona che disponesse di una certa ricchezza.

Ortica era la sua cavalcatura di allora. Una maremmana imponente, difficile da gestire ma, nelle sue mani, bravissima e precisa nel lavoro con il bestiame. In altre mani sarebbe stata probabilmente ingovernabile ma con Giovanni era una gran cavalla.
Giovanni sapeva trovare la strada che apriva il cuore dei cavalli!
Con le donne era diverso, Giovanni non riusciva a sostenere lo sguardo di una donna, una conversazione con una donna che andasse al di la di quattro parole di convenevoli. Quando gli capitava di parlare con una donna, specie se la trovava attraente o comunque interessante, arrossiva, biascicava qualche parola e si allontanava appena possibile dandosi dell’imbecille.

Ora c’era il problema di coprire Ortica, che di per se non era un gran problema, ma diventava un gran problema se si considerava che Veleno era di proprietà di Lucia.
Lucia era una vedova ancora giovane che abitava nelle vicinanze. Il marito era morto alcuni anni prima di un male incurabile e Lucia aveva portato avanti l’azienda quasi da sola, col solo aiuto di alcuni lavoranti e butteri.
Veleno era lo stallone del suo allevamento, un morello ben strutturato e di buona attitudine al lavoro. Veniva regolarmente montato dai butteri di Lucia per svolgere le normali attività dell’azienda e fungeva appunto anche alle funzioni di stallone. Era evidentemente un cavallo di grande equilibrio e questo, unitamente alla bella struttura, ai buoni appiombi e alla sicurezza di piede faceva di lui il naturale pretendente per coprire Ortica, bella cavalla ma bisognosa di uno stallone che mitigasse un po’ il suo carattere ribelle. In verità anche Veleno non è che fosse dolcissimo, ma ultimamente era cambiato. Era successo dopo un brutto incontro con un toro maremmano in compagnia del suo domatore e cavalcante, Mario, che si era fatto davvero male in quell’occasione e Veleno lo aveva praticamente salvato. Da allora era cambiato Veleno e, soprattutto, era cambiato l’atteggiamento degli altri butteri verso Veleno, tanto che veniva regolarmente montato da loro, che Mario era in convalescenza.
Il problema era che per arrivare a Veleno bisognava passare per Lucia…
E per Giovanni era un problema non da poco!
Mentre si arrovellava su questo problema, che in realtà il problema vero non era come fare per coprire Ortica, il problema vero era che Lucia, il solo pensarla, non parliamo di vederla o, peggio, di parlarle, gli provocava un misto di emozioni di ogni tipo, il cuore gli batteva forte e il sangue gli ribolliva, ma la voce, la voce spariva in un misto di parole incomprensibili e senza senso lasciandolo con l’animo svuotato e il sangue ribollire…

Mentre si arrovellava su questo problema, dicevamo, Giovanni non sapeva che presto il destino lo avrebbe posto di fronte ad altri, più tragici avvenimenti.

(continua)

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GIOVANNI E LA SUA MAREMMA (seguito)

Le giornate si allungavano percettibilmente giorno dopo giorno, l’inverno stava finendo. Erano gli ultimi giorni di febbraio e l’aria, ancora fredda, sembrava però più dolce, quasi che il corpo percepisse la primavera imminente.
Ortica era nervosa quella mattina - sentirà la primavera che arriva…- pensò Giovanni mentre stringeva le cinghie della bardella. Uscì dalla scuderia, salì sul muretto, la cavalla si fece sotto e con un balzo si issò in sella stringendo la mazzuola sulla destra e le redini sulla sinistra, e così partirono di buon passo verso i pascoli.
Dopo aver superato la salita, in cima alla collina, si apriva un paesaggio mozzafiato che degradava fino al mare ma gli occhi di Giovanni erano poco interessati a tanta poesia, i suoi occhi si soffermavano puntualmente sulla casa di Lucia, che si vedeva in fondo alla collina.
Era una bella casa, con le stalle, i rimessini, i recinti… tutto ben curato e ordinato che Mario, il massaro, oltre che un grande uomo di cavalli era anche molto attento a che tutte le cose dell’Azienda fossero ben ordinate.
Ma quella mattina, mentre come al solito, al pensiero di Lucia si sentiva profondamente idiota per quel misto di ribollire del sangue e di incapacità di articolare verbo, vide qualcosa di strano nei recinti della fattoria.
Da quella distanza non distingueva bene, ma era chiaro che nel recinto delle vacche c’erano parecchi animali distesi e poi, da un lato, c’era un crocchio di persone intorno a qualcosa che non distingueva bene.

Poggiò la redine sul collo di Ortica, questa deviò decisa sulla destra e, uscendo dal sentiero, scese la ripida costa del greppo mentre i sassi rotolavano in basso smossi dagli zoccoli della cavalla.
Superato il greppo la discesa si faceva più dolce e Giovanni spinse Ortica al galoppo verso la fattoria di Lucia.
Ora si distingueva bene, c’erano una decina di vacche a terra, alcune immobili, altre che ciondolavano mestamente la testa e più in la, il crocchio di persone intorno a una vacca che faceva fatica e reggersi in piedi.
Istintivamente rallentò l’andatura di Ortica che, quasi presagisse la gravità del momento rallentò fino a mettersi al passo, lento e strascicato. Giovanni la fermò, saltò di sella mettendo a terra le redini, Ortica, addestrata a stare ferma con le redini a terra, rimase immobile mentre Giovanni si avvicinava a grandi passi al recinto.

C’era Lucia e un gruppo di lavoranti intorno alla bestia, lavoranti della terra, nessuno esperto di bestiame.

A Giovanni bastò un colpo d’occhio, portò un fazzoletto davanti al naso e si avvicinò tenendo coperti naso e bocca, il suo timore si avverava, le bestie avevano il Carbonchio!!!
-Giovanni!- esclamò Lucia, -è il cielo che vi manda, gli uomini sono tutti sui pascoli, Mario in ospedale, qui nessuno ci capisce di bestiame… ma cosa sta succedendo alle mie vacche?-
Giovanni fu perentorio, concreto e deciso:

-Hanno il carbonchio signora, bisogna bruciare le vacche morte e tenere isolate tutte le altre. Nessuno di voi avvicini gli altri animali lontani da questo recinto, loro potrebbero non aver ancora preso il morbo ma potreste attaccarglielo voi, bisognerà vaccinare le bestie di questo recinto, forse anche le altre, forse anche voi che avete toccato le bestie contagiate.
Vado in paese ad avvisare il veterinario-

Partì a spron battuto verso il paese. Mentre Ortica galoppava ventre a terra mille pensieri affollavano la mente di Giovanni, doveva assumere un buttero che guardasse le sue bestie, che lui avrebbe avuto il suo daffare a dare una mano che Mario era ancora in convalescenza per la gamba rotta, bisognava allontanare le sue bestie dalla vicinanza con la fattoria di Lucia, guai se anche loro avessero contratto il morbo, se già non l’avevano preso, bisognava controllare… in paese avrebbe trovato il veterinario, o forse no, ma in paese c’era il telefono, l’avrebbe trovato… bisognava avvisare i carabinieri per il cordone sanitario che un focolaio di carbonchio faceva davvero paura… ma aveva parlato con Lucia, aveva parlato con Lucia senza intruppare nelle parole come gli accadeva sempre, era bella Lucia…

Venne il Servizio Veterinario Provinciale, la fattoria venne isolata, si organizzò un controllo veloce degli allevamenti della zona, furono emesse ordinanze che vietavano il movimento di bestiame da e per quella zona.
Iniziò la vaccinazione di tutti i capi infetti che vennero tutti radunati in un unico recinto. Le carcasse furono bruciate, i capi più compromessi furono abbattuti e bruciati, quelli sani tenuti rigorosamente separati dagli altri.
Vennero vaccinate le persone che erano entrate in contatto con il bestiame infetto…

Alla fine di aprile il contagio fu finalmente considerato debellato.

Giovanni aveva avuto il suo bel daffare, i contatti con Lucia erano quasi quotidiani. E alla fine, con l’aiuto di tutti l’emergenza era superata.
Lucia aveva perso parecchi capi ma, tutto sommato, l’allevamento era salvo. E i cavalli non erano stati contagiati, fortunatamente.
Era la fine di aprile, era il momento giusto per coprire Ortica con Veleno, lo stallone di Lucia. Giovanni prese il coraggio a quattro mani, rinfrancato anche dai frequenti contatti di quei giorni, e chiese a Lucia di coprire la sua Ortica con Veleno.
-Caro Giovanni, come posso dirvi di no, dopo tutto quello che avete fatto per noi. Ma voglio proporvi un patto, Mario è innamorato di Ortica, me ne parla sempre. Allora vi propongo di coprire per almeno due anni la vostra Ortica col mio Veleno, e voi accettate di vendermi uno dei due puledri, a vostra scelta-
-Consideratela cosa fatta- rispose estasiato Giovanni
-Bene, allora portate Ortica appena sarà in calore…-

Una settimana dopo, col cuore in subbuglio, Giovanni portò Ortica alla fattoria di Lucia, lei lo accolse sorridente, scambiarono un po’ di convenevoli poi, con Ortica sottomano, entrarono chiacchierando in scuderia dove stava Veleno, camminando fianco a fianco.

Tra l’altro le due fattorie erano pure confinanti…

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25/04/2013, 18:44
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FARFALLA

Era stato un lungo inverno quell’anno. Lungo e freddo come non si ricordava a memoria d’uomo.
Era l’argomento principale tra i cavallari nel bar di Rita, il K2. E tra un ammezzato e l’altro si raccontavano vecchie storie seduti intorno ai tavoli quadrati del locale mangiando pane e mortadella, il tutto annaffiato da un buon bicchiere di vino mentre il fuoco acceso scoppiettava riscaldando il locale che aveva annesso il forno di panificazione di Rita.

Per ammazzare il tempo in quelle noiose e fredde giornate di fine inverno si raccontavano vecchie storie. Leo, per esempio, raccontava di quella volta che aveva portato l’imbasciata a portar giù legna in quel posto senz’acqua, tanto che non si era lavato per una settimana. Ed altre storie, ognuno la sua.

Leo era un uomo grande e grosso, con lo sguardo dritto di chi ha le idee chiare e la coscienza serena. Faceva il boscaiolo, mestiere antico ma ancora attuale in quelle zone.
Era felice Leo, spesso diceva che non avrebbe desiderato fare altro lavoro che stare tra i suoi monti con i suoi muli. Ed io stesso l’avevo sentito tante volte durante i miei giri a cavallo, cantare allegramente mentre saliva le chine del Catria a cavalcioni del basto del primo mulo dell’imbasciata.

Per certi versi sembrava un paese incantato, come se il tempo si fosse fermato a tanti anni fa.

Ma quell’inverno era stato veramente duro. Ai primi di marzo la cima del Catria era ancora bella bianca, ben coperta di neve. E anche giù in paese, nei punti più nascosti al sole, la neve sporca ma ancora persistente testimoniava la durezza di quell’inverno.

Così duro che avevano dovuto portare il fieno ai cavalli al pascolo sul Catria con l’elicottero, e molti di loro non ce l’avevano fatta. I corpi di molti erano stati trovati allo sciogliere delle nevi e gli allevatori facevano il conto delle perdite.

Zi Fulvio se ne stava in disparte accanto al fuoco, negli ultimi tempi più silenzioso del solito. Era preoccupato e pensieroso. Farfalla non si trovava. L’aveva rimandata sul monte in ottobre dopo la fiera e da allora non l’aveva più rivista. Non era nel branco delle cavalle dove portava il fieno l’elicottero e non l’avevano trovata ne viva ne morta durante i primi giri in quota man mano che la neve scioglieva.

Zi Fulvio aveva accompagnato Fausto con la sua Jeep nei primi giri sul monte nella speranza di ritrovare Farfalla, ma non c’era stato niente da fare: non l’avevano trovata. Ne viva, ne morta in verità. E questo lasciva una debole speranza. E come il cuore gli si apriva alla speranza, subito il volto di Zi Fulvio s’incupiva: come poteva essere sopravvissuta a tanta neve se non era nella zona dove andava l’elicottero? No , era sicuramente morta. E pensava che avrebbero ritrovato il corpo una volta che fossero riusciti ad arrivare in cima al monte.

Farfalla, era una cavallina baia con bei ciuffi neri ai nodelli, una coda e una criniera con crini grossi, belli e folti e con gambe dritte e forti, il collo lungo e la groppa possente e la bella testa dritta ed espressiva. Ma a conquistarti erano gli occhi. Ti guardava e capivi che lei ti capiva e sapeva per cosa eri andato da lei. Osservava tutto di chi si avvicinava: le mani per vedere cosa portavano, gli occhi per capire se eri calmo, e soprattutto era dolcissima quando mordicchiava delicatamente il giubbetto di Zi Fulvio quasi fossero delicati baci d’amore. E gli aveva preso il cuore a Zi Fulvio. Nella sua vita aveva allevato e venduto tanti cavalli e muli ma nessuno mai lo aveva preso come Farfalla. E non voleva dirlo, non era uso amare una cavalla, al più la buona fattrice, la brava bestia laboriosa veniva premiata con una ciotola di biada in più, ma nient’altro: nulla che avesse a che fare con un sentimento.
E tale era invece quello che Zi Fulvio provava per Farfalla, un sentimento. Quasi come per una persona. E non voleva mostrarlo. E così era taciturno, non parlava, non rispondeva mostrando così, inconsapevolmente proprio lo stato d’animo che voleva celare.
Si incolpava di averla mandata sul monte al fare dell’inverno, si arrovellava, non doveva si diceva, in quello stato poi…
Si perché Farfalla all’inizio della primavera era stata presentata a Moro che dapprima l’aveva mordicchiata delicatamente su un fianco, poi le era andato vicino al muso quasi dolcemente e quindi l’aveva montata, con foga, con passione, per la gioia dei presenti: di Zi Fulvio, del padrone di Moro e Francesca, innamorata dei cavalli, e di Farfalla e di Moro in particolare. Ma innamorata di tutti i cavalli con gli occhi buoni. Era lei che aveva convinto Zi Fulvio a fare quell’accoppiamento. Non aveva dovuto faticare molto a convincere Zi Fulvio per la verità. Moro era un bello stallone baio molto bravo nel lavoro: si esibiva senza redini con la sola guida del corpo del suo cavaliere e questo affascinava Zi Fulvio che aveva sempre montato a pelo e con la capezza: una tirata al muso della povera bestia e via, e adesso vedere quello stallone imponente lavorare sereno senza nessuna imboccature ne corda ne costrizione, in mezzo alle femmine, spesso in calore, lo affascinava e sognava un puledro che mettesse insieme le buone qualità dei due riproduttori.
“Abbiamo creato il vincitore della fiera tra due anni” disse Francesca quando Moro scese ansimante dalla groppa di Farfalla.
E adesso farfalla non si trovava, era sparita sul Catria. Certamente morta.
Francesca era una bella ragazza mora. Dalla carnagione ambrata che tradiva le sue origini, un po’ calabresi e un po’ andaluse, con una bisnonna spagnola. E il mescolare di quei sangui l’aveva fatta statutaria nelle forme, affascinante nel viso dai tratti decisi eppure dolcissimi risaltati dai capelli corvini portati sciolti. E le spalle piene e la schiena dritta e sicura facevano da cornice alla vita stretta ed ai fianchi larghi che scendevano verso le cosce tornite con forme decise e rotonde. Forme che risaltavano meravigliosamente quando cavalcava sollevata sulla sella leggermente piegata in avanti sul collo del cavallo per facilitarne il movimento. Era bella Francesca. E si innamorava dei cavalli. Come non avevo mai visto fare. E lo sguardo con cui interrogava Zi Fulvio ogni volta che lo incontrava da Rita era più chiaro di mille parole. E ogni volta Zi Fulvio abbassava lo sguardo, quasi pudico per aver mandato Farfalla sul monte in quello stato, si che Francesca l’aveva ben detto di non farlo. E allora gli occhi di Francesca si riempivano di lacrime e usciva in fretta senza salutare. Il dolore per la morte di una cavalla cui era affezionata l’aveva già provato, e la prospettiva di provarlo ancora l’angosciava.
Allora andava alla stazione di monta, abbracciava Moro sul collo mentre calde lacrime le solcavano la bella faccia triste bagnando le labbra turgide che tremavano nel pianto silenzioso.

Intanto il tempo passava, le giornate si allungavano e i rivoli d’acqua formati dalla neve che si scioglieva diventavano meno veloci e meno rumorosi, l’erba tingeva i prati dei pascoli di un verde smeraldo molto intenso mentre i fiori gialli e le margherite formavano chiazze di colore sulle quali svolgevano la loro breve vita le farfalle e volavano le api in cerca di nettare. Erano già passate le viole e le primule, e con i primi soli la valle si riempiva di nuovi, brevi, piccoli nitriti. Nascevano i puledri di quell’anno e l’aria si riempiva di suoni e di odori che gli stalloni giù alla stazione di monta percepivano netti, come un chiaro segnale dell’imminente stagione degli amori. I puledri saltellavano intorno alle madri tra una poppata e l’altra e gli allevatori descrivevano i propri come i più belli dell’annata.
La neve era ormai sciolta anche in cima al Catria ed era ormai praticabile il passo che portava dall’altra parte del monte, così una mattina, mentre ero a prendere il caffè da Rita e Zi Fulvio, come al solito, se ne stava in disparte da solo, Fausto gli disse:
“Fulvio, gim a vede su la croce c’ha sciolt ormai?”
Zi Fulvio assenti, quasi dispiaciuto, come cosciente che avrebbero trovato il corpo della sua Farfalla perdendo così anche l’ultima speranza.
Mi aggregai di buon grado alla compagnia e partimmo con la jeep di Fausto.
Mi piaceva la jeep di Fausto. Sapeva di vero con quel suo binocolo per vedere le punte dei cavalli al pascolo sul Catria e la borraccia col the per dissetarsi. Sapeva di vita vissuta con i cavalli. Non come gli eleganti suv che si vedevano la domenica giù in maneggio.
Fausto era il più grosso allevatore di cavalli Catria del paese, aveva circa un centinaio di capi sparsi sul monte, e li curava da solo. Magari era un po’ brusco nei modi ma le bestie erano tante e il tempo poco, che faceva anche un altro lavoro. E comunque era quello che cercava di selezionare una linea da sella, a differenza degli altri che vendevano i puledri anche ai commercianti per il macello.
E così andammo su mentre Fausto parlava tessendo le lodi dei suoi nuovi nati: “allora Giannì? Cò m dichi? Vdessi che puledri che m’en nati st’anno. Vdessi l fijo d’la Serena, che robba ch’è, e quel d’la Debora sa Rombo…”
Io ascoltavo e mi perdevo in quei racconti, in quegli incroci, generazioni di stalloni e di fattrici che mi passavano davanti agli occhi, e amavo sempre più quella razza di cavalli che sapevano sopravvivere ai lupi, alla neve, ai tafani grandi come elicotteri, alla siccità dell’estate, ai loro stessi padroni che li lasciavano sempre al pascolo. Un pascolo arido d’estate, freddo d’inverno e comunque sempre ostile. Dove probabilmente solo i Catria sapevano sopravvivere. E addirittura proliferare.
Ma Farfalla non c’era. Ancora una volta ne viva ne morta. Arrivati in cima scendemmo nella zona dove Fausto pensava avremmo trovato il corpo della cavalla, ma per quanto girassimo Farfalla non c’era. Ne viva ne morta.
Zi Fulvio riprese colore e parlò di nuovo: “gim giù- disse –ve pagh da be da la Rita”, sembrava sollevato.
Chissà che sperava quel vecchio cavallaro pazzo e testardo, che Farfalla fosse sfuggita al gelo dell’inverno? E allora dov’era? Perché non era scesa con le altre bestie? No, pensai, non può essere. Ma il vecchio nel sedile dietro sembrava quasi sollevato. Vecchio ostinato, pensai: non si rassegna neanche davanti all’evidenza!

Passò la primavera, quell’anno vari problemi mi tennero per parecchio tempo lontano dai miei amati cavalli del Catria.
Quando tornai in maneggio a inizio estate andai a vedere i puledri nati in primavera, già cresciuti e vispi.
Con mia grande sorpresa vidi una bella faccia venirmi incontro, era Farfalla, e non era sola ma al suo fianco saltellava con aria curiosa e saputa una puledrina baia dalle belle forme tondeggianti.
Mi raccontarono che chissà come e chissà perché, e chissà in quale misterioso punto del monte, ma sta di fatto che un misterioso Dio dei cavalli doveva aver posto la sua mano a protezione della cavalla per tutto l’inverno, e oltre, visto che era tornata una bella mattina verso la fine di maggio con l’aria tranquilla e il pelo fino di chi non ha patito la fame, e soprattutto con la bella puledrina al fianco.
E mi dissero di Zi Fulvio che passava e ripassava le sue manone rozze sul collo della cavalla in una lunga e appassionata carezza mentre lei gli mordicchiava delicatamente il lembo della camicia.
E di Francesca che baciata la cavalla corse da Moro, lo abbracciò sul collo mentre una lacrima le solcava le gote per fermarsi sulle belle labbra turgide baciate dal sole di inizio estate.

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QUANDO, A CAVALLO, INCONTRI UNO STALLONE COL SUO BRANCO

Era l'annuale fiera del Cavallo del Catria.

La fiera si tiene puntualmente la 1° domenica di ottobre. In quell'occasione i cavalli scendono dal monte per passare l'inverno a quote più ragionevoli.
In verità il subbuglio inizia il venerdì pomeriggio perché gli allevatori iniziano a portare i primi branchetti nell'area della fiera.
E' una fiera molto lontana dai luccichii della fiera di Verona o di Reggio Emilia, è una fiera antica, i cavalli vengono presentati così come scendono dal monte, un po' magri per la durezza dei pascoli e con le code e le criniere arruffate per i rovi e i cespugli che in montagna si intrecciano tra i crini.

La maggior parte degli allevatori arriva però il sabato mattina, alcuni anche la domenica mattina, la domenica è il giorno clou, c'è la rassegna, si stilano le graduatorie dei soggetti più belli, più rappresentativi della razza. Si distribuiscono le ambite coppe ai soggetti migliori e poi si fanno affari, molti soggetti cambiano di mano, le trattative fervono tra un crocchio e l'altro. Sembra, a sentirli, che nessuno voglia vendere e nessuno voglia comprare, ognuno per far livitare i prezzi oppure farli scendere, a seconda del ruolo...

Belle scene antiche che ogni volta mi fanno pensare quanto tempo ancora potrà durare questa atmosfera ormai fuori dal tempo... Ma comunque basta divagare.

Io ero in sella al mio Delfino, stallone Catria (soggetto più bello in tutte le fiere cui a partecipato) quando arriva col suo branco il più grosso allevatore della zona. Arriva con una cinquantina di soggetti alla rinfusa, le giumente col campano, i puledri che saltellano intorno... io, come al solito curioso e ficcanaso, mi avvicino con Delfino per salutare l'allevatore e vedere da vicino i soggetti, solo che in mezzo al branco c'era lo stallone (peraltro fratello del mio Delfino) capobranco.

Come percepisce l'avvicinarsi di Delfino ci viene incontro aggressivo, Delfino impenna, ma impenna come non mi era mai capitato, in parole povere si para il cielo davanti ai miei occhi tanto era dritto il mio stallone. E' un attimo, io montavo a bardella e chi dice che la bardella ti tiene prigioniero dice una sciocchezza, ero piede a terra, tenendo in mano le redini, più veloce del mio stesso pensiero e in quella concitazione Delfino si volta e molla una doppietta micidiale verso l'altro stallone. Mi vedo sfiorare da uno zoccolo di Delfino, credo sia passato a 5 / 10 cm dal mio volto, non di più. Ho ancora in mente la sensazione del fruscio degli zoccoli che saettavano verso l'altro...

Nel frattempo gli allevatori intervengono allontanando l'altro stallone, Dominatore si chiama, e torna la calma anche se i due animali continuano a sfrogiare come fanno gli stalloni quando diventano aggressivi. Mi si fanno intorno gli amici: "Giannì t'sei fatt mal? T'la sei vista brutta eh? ..." e così via.

E pensare che con quello stallone avevamo fatto una fiera insieme galoppando fianco a fianco a toccarsi quasi le ginocchia dei cavalieri, ma li c'era il branco, la concitazione, le cavalle... Insomma li mi è andata davvero bene!!! E Delfino portò a casa le ennesime coppe, stallone più bello e miglior soggetto della fiera

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